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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/266

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L’insidioso poi sposo, et albergo,
     Vinta da la vergogna, hà in odio, e lassa,
     E havendo à noia ogni huom, lor volge il tergo,
     Et à servir la Dea triforme passa.
     Com’io son senza lei, di pianto aspergo
     L’afflitta luce addolorata, e bassa.
     E quanto più di me fugge ella il guardo,
     Tanto io di lei più m’ innamoro, et ardo.

La trovo al fin ne’ boschi, ove Diana
     Corre dietro alla belva empia, e veloce.
     Tosto, ch’ella mi vede, e s’allontana,
     La seguo ovunque và con questa voce.
     Renditi donna homai benigna, e humana
     Al foco, che m’infiamma, e che mi coce,
     Fù il mio l’errore; e cosi affermo, e sento,
     E ti chiedo perdono, e me ne pento.

Tutto l’error commesso è stato il mio,
     E ’l conosco, e ’l confesso, e ’l sento, e ’l ploro;
     Ne sò trovar pensier si santo, e pio,
     Che resistesse à si nobil thesoro:
     E ’n questo error sarei caduto anch’io
     Per men copia di gemme, e per manc’oro.
     Si che non mi fuggir, ma meco godi
     I dolci d’Himeneo connubij, e nodi.

Il confessato errore, il prego, e’l pianto
     Co’l mezzo de le Ninfe, e de gli amici
     Con l’indurata mia moglie fer tanto,
     Che scacciò dal suo cor le voglie ultrici.
     E tornata al connubio amato, e santo,
     Menammo i nostri dì lieti, e felici:
     Ma non sofferse il mio maligno fato,
     Ch’io stessi molto in si felice stato.

Mentre restar fè la mia luce priva
     Del suo divin splendor la mia consorte,
     Ottenne un don da la sua santa Diva,
     Forse il più singular de la sua corte,
     D’una natura un can si fiera, e viva,
     Ch’in caccia à ogni animal dava la morte.
     Era d’ogni animale empio, et acerbo
     Più forte, più veloce, e più superbo.

Le donò anchor co’l can feroce, e snello
     Quel dardo altier, che tien quel paggio in mano,
     Ch’avanza al volo ogni veloce augello,
     E per mio mal mai non si lancia in vano.
     Ma poi, che l’amor mio leggiadro, e bello
     Gratia mi fe del bel sembiante humano,
     Volendo del suo amor segno mostrarme,
     Mi fe don di quel veltro, e di quell’arme.

Ó nova maraviglia, e non più intesa,
     Che dal don de la Dea Silvana nacque.
     Troppa audacia in Beotia s’havean presa
     Nel voler profetar le Dee de l’acque.
     S’un volea il fin saper d’alcuna impresa
     L’oracol de le Naiade no’l tacque,
     Tanto, ch’ogn’un v’havea più fede, e speme,
     Che ne’ risponsi pij de l’alma Theme.

La Dea, che vede abbandonato il tempio
     In tutto dal Senato, e da la plebe,
     Per donare à futuri huomini essempio
     Nel fertil pian de la non fida Thebe
     Scender fà un mostro, ch’ importuno, et empio
     Tutte del sangue human sparge le glebe.
     Gli huomini, e gli animai divora, e strugge,
     Ne alcun l’osa ferir, ma ogn’uno il fugge.

Era una Volpe oltre ogni creder fella,
     Di lupo il dente havea, cerviero il guardo,
     E in esser fiera, cruda, agile, e snella,
     Avanzava il leon, la tigre, e ’l pardo.
     Scorrea Beotia, e ’n questa parte, e in quella
     Si presta, ch’era il folgore più tardo.
     Struggea di fuor le gregge, e i fieri armenti,
     E dentro à le città l’humane genti.

L’oppresse allhor città prendon consiglio
     D’unire, e reti, e cacciatori, e cani,
     E liberar dal mostruoso artiglio
     Le mandre fuor, dentro i collegij humani.
     Anch’io chiamato al pubblico periglio,
     De la lassa, e del dardo armo le mani.
     E m’appresento al general concorso
     Co’l fatal can, che vince ogni altro al corso.