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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/290

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Poi c’ ha mostrati i suoi propinqui danni
     Al figlio, fa, che seco in aria ascende.
     E batte verso Ionia i novi vanni,
     Che dismontar sopra quel regno intende.
     Non credendo il figliuol d’accortar gli anni,
     Il medesmo camin per l’aria prende.
     Lascia Ritinna Dedalo, e s’invia,
     E passa sopra l’isola di Dia.

Il pescator, che su lo scoglio siede,
     E la tremante canna, e l’hamo adopra,
     Stupisce di quegli huomini, che vede
     Con l’ale, come augei, volar di sopra.
     Fà fermare il bifolco à tori il piede,
     E per mirargli lascia il solco, e l’opra.
     Tutti per rimirargli alzano i lumi,
     Conchiudon poi, che sian celesti Numi.

Già sopra Paro havea snello, e leggiero
     E questi, e quei l’aure celesti prese,
     Quando del volo audace Icaro altero,
     De la vista del ciel troppo s’accese;
     E spinto in sù dal giovinil pensiero,
     Troppo vicino al Sol le penne stese.
     S’accostò troppo à la diurna luce,
     E lasciò mal per lui l’ incauto Duce.

Il sole il dorso al giovane percuote,
     E le composte cere abbrucia, e fonde:
     In van l’ignude braccia Icaro scuote,
     S’ aiuta in van per non cader ne l’onde.
     L’aure con l’ale più prender non puote,
     E cade, e chiama il padre, e ’l mar l’asconde.
     Vicino à terra fur l’Icarie some
     Tolte dal mar, ch’à lui tolse anche il nome.

Intanto l’ infelice padre il ciglio,
     Come spesso solea, rivolge indietro,
     E quando in aria più non vede il figlio,
     Con mesto il chiama, e lagrimevol metro.
     E mentre biasma l’arte, e ’l suo consiglio,
     Vede notar su’l liquefatto vetro
     La piuma, che ne l’aria no’l sostenne,
     Perche vicino al ciel troppo si tenne.

Del poco cupo mar vicino al lido
     Piangendo il fabro il suo fanciullo tolse,
     E l’isola, ove il suo funebre nido
     Fondogli, il nome anchor d’Icaro volse.
     Mentre il chiudea nel marmo, allegra un grido
     Una starna, che ’l vide in aria, sciolse:
     Ne sol di tanto mal si mosse à pieta,
     Ma mostro à molti segni esserne lieta.

Ben con ragion de tuoi pianti funesti
     S’allegra quell’augel, che t’ode, e vede,
     Dedalo, che sai quanto l’offendesti,
     E quanta infamia il mondo te ne diede.
     Ben ti sovien, che già un nipote havesti,
     Che fidò tua sorella à la tua fede.
     Quest’è l’augel, che del tuo mal si gode,
     Per la tua crudeltà, per la tua frode.

Mostrò questo figliuol si raro ingegno,
     Che diè la madre al fabro ingiusto, e rio,
     Ch’ogn’un facea giudicio, che più degno
     Stato saria del suo maestro, e zio.
     Dodici volte stato era nel segno
     Del suo ascendente il luminoso Dio,
     Quando ei fu dato al zio crudele in mano,
     Perch’apprendesse l’arte di Vulcano.

Si bene in breve il buon fanciullo intese
     La forza de la lima, e del martello,
     Che fe stupir il mastro ogni hor, ch’intese
     Gli occhi nel suo lavor pregiato, e bello.
     Ma quel, che l’empio zio d’ invidia accese,
     E contra il sangue proprio il fe rubello;
     Fur due, ch’uscir del fanciullesco senno,
     Stormenti ignoti al fabro anchor di Lenno.

Nota più volte la dentata spina,
     Che nel mezzo del dosso il pesce fende,
     E con la mente sua quasi divina
     À quel, che può servir, l’essempio intende.
     Al fin dà lieto il foco à la fucina,
     Poi con la force il ferro acceso prende:
     Sopra l’incude poi tanto il castiga,
     Che ’l fa venire in forma d’una riga.