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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/328

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Fu da Giunon mandata allhor costei.
     Giunon per gelosia m’odiava à morte,
     Che non volea, che i novi parti miei
     Dovesser poi goder la fatal sorte.
     Tu dei saper, ch’un giorno à gli altri Dei
     Disse il rettor de la celeste corte.
     Quel, che verrà nel tal tempo à la luce,
     Sarà de l’alma Grecia il maggior Duce.

Onde Giunon, che non volea, che ’l figlio,
     Ch’uscir dovea di me tal fato havesse,
     Fra se discorse, e prese al fin consiglio
     Di far, che ’l parto mio rinchiuso stesse
     E lei non senza mio mortal periglio
     Mandò, che ’l mio figliar tardar dovesse,
     Fin tanto, che ’l figliuol di Steneleo
     Nascesse, che fu poi l’empio Euristeo.

Lucina in forma d’una vecchia viene
     Per esseguir di Giuno il crudo aviso,
     Siede su l’uscio, e incatenate tiene
     Su’l ginocchio le man, su’l pugno il viso.
     E senza haver riguardo à le mie pene,
     Perche ’l parto da me non sia diviso,
     Dice il verso opportuno, il qual forz’have
     Di far, che ’l fianco mio mai non si sgrave.

Io pur mi sforzo, e chiamo ingiusto, e ingrato
     Giove, che ’l suo figliuol da me non toglie,
     E colma di dolor bramo, che ’l fato
     Mi toglia con la morte à tante doglie.
     Ma tutto è in van, che ’l core havea indurato
     Del maggior Dio l’ invidiosa moglie.
     E pure i miei lamenti, afflitti, e lassi
     Movean di me à pietà le mura, e i sassi.

Ogni madre più nobile, e più degna,
     Ch’albergar suol ne la cittate Ismena,
     Prega ogni Dio di cor, che nel ciel regna,
     C’habbia pietà de l’ infelice Almena.
     Cerca ogn’una darm’animo, e s’ingegna
     Per varie vie d’alleggerir mia pena.
     Ma Lucina si stà secondo l’uso,
     E tiene il pugno incatenato, e chiuso.

Galantide ministra ardita, e accorta
     Del mio fedel marito Anfitrione,
     Che sapea in parte l’odio, che mi porta
     Per gelosia la querula Giunone;
     Vedendo star colei fuor de la porta,
     Prese fra se qualche sospitione,
     E più, che stava assisa, e havea raccolto
     Tutto in un gruppo il seno, il pugno, e ’l volto.

Cade à questa ministra ne la mente,
     Che sia qualche malvagia incantatrice,
     E tanto più, che mormora fra ’l dente,
     E non si può sentir quel, ch’ella dice:
     Se n’entra in casa pria, come prudente,
     Tutta lieta esce poi, tutta felice,
     E con l’allegra sua favella, e vista
     La vecchia in un momento inganna, e attrista.

Qual tu ti sia, cui noto era il periglio,
     Ch’à la padrona mia dovea tor l’alma,
     Stà lieta homai, c’hor hora ha fatto il figlio,
     Et ha sgravato il sen di si gran salma.
     La Dea per maraviglia inarca il ciglio,
     E vuol levarsi, e batter palma, à palma,
     E l’una, e l’altra man mesta divide,
     Et io do fuora il mio fgliuolo Alcide.

Tosto, che la ministra esser la vede
     Levata, e non star più ferma in quell’atto,
     Se n’entra, e trova il figlio uscito, e crede,
     C’habbia giovato à me quel, ch’ella ha fatto.
     Subito lieta fuor ridendo riede,
     E trova il volto antico, e contrafatto,
     E la deride, e chiama vecchia, e insana,
     E strega, e incantatrice inetta, e vana.

La chioma sua la Dea sdegnata prende,
     Come il suo riso, e ’l suo disprezzo mira,
     E furiosa in terra la distende,
     E quinci, e quindi la strascina, e tira.
     Con pugni, e calci poi la batte, e offende.
     E sfoga il cruccio muliebre, e l’ ira.
     Si vuol levar la misera, e si trova
     Una persona haver picciola, e nova.