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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/335

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Mandato Giove un folgor ne rafforza
     Un’ altro, e un’ altro, e via balena, e tuona,
     E dando al forte braccio ogni hor più forza,
     La terra d’ogni intorno, e ’l cielo introna.
     Tal, che Mileto, e ’l campo al corso sforza,
     Ognun le squadre, e gli ordini abbandona.
     E ’l foco, che dal ciel si ardente piove,
     Ognun cerca fuggir, ma non sa dove.

L’uno abbandona l’altro, e per salvarsi
     Corron, chi quà, chi là per varij lochi,
     E molti in varie forme restano arsi,
     Secondo varia il ciel le pietre, e i fochi.
     Quei, che vivi anchor, son trovansi sparsi
     Tutti chi quà, chi là smarriti, e pochi.
     Mileto vede ben, che quel flagello
     Gli vien, perch’al cognato egli è ribello.
     
Tosto, che manca il fulminar de l’aria,
     La poca gente sua, che viva resta,
     Vedendo la fortuna haver contraria,
     Per andar verso il porto insieme appresta.
     E trova, che la fiamma empia aversaria
     Con la fervente, e subita tempesta
     Distrutte ha le galee, rotte le navi,
     L’asse, l’antenne, e l’elevate travi.

Fra tutti i grossi legni, e le triremi,
     Che ’l fulminar del ciel distrutti havea,
     À pena tanta ciurma, e tanti remi
     Trovò da porre in punto una galea.
     Di quei, che non restar de l’alma scemi
     Da la fiamma del ciel crudele, e rea,
     Fatta una ciurma à una galea s’attenne,
     C’havea anchor salvi gli arbori, e l’antenne.

L’armata havea nel porto di Fenico,
     Però c’havendo preso il regno tutto,
     Vicino à questo porto il suo nemico
     In un forte castel s’era ridutto.
     Da questo porto misero, e mendico,
     Poi che ’l foco del ciel l’have distrutto,
     Sol con una galea forz’è che lasse
     Quel regno, ch’assaltò con tanta classe.

Di notte, come porta il suo destino,
     Fà vela, e à mezzo dì drizza la prora,
     E passa il capo, c’ ha nel suol mancino,
     Pria, ch’à splender del ciel venga l’Aurora.
     Verso levante poi prende il camino,
     Et havendo al suo fin propitia l’ora,
     Si trova giunto à l’apparir del lume
     Sopra la bocca del Messalio fiume.

Poi che scacciato dal celeste grido
     Mileto fu di Creta; haveasi eletto
     Passar, come premea di Cuma il lido,
     Dove ha Meandro il raggirato letto.
     E quivi intendea farsi un novo nido
     Per qualche suo particolar rispetto.
     E conveniale costeggiare intorno
     Creta, dov’ella è volta al mezzo giorno.
     
Come ha dunque passato Psichione,
     Drizza à Greco il camin co’l vento à l’orza,
     E mentre il promontorio di Leone
     Cerca acquistare, il vento alza, e rafforza,
     Tanto, ch’ in poppa à la galea si pone,
     E gonfia il teso lin con tanta forza,
     Che speran pria, che venga oscuro il cielo,
     Passar se non, Itano, almeno Ampelo.

Già si chinava il Sol verso la sera,
     E potea star tre hore à restar morto.
     E l’aura era restata si leggiera,
     Che ’l lino havean di già piegato, e attorto.
     E già il legno ad Ampelo arrivat’ era,
     Ma sorger non volea, ne pigliar porto.
     E gir piuttosto al buio, e con fatica
     Volea, che prender l’ isola nemica.

Ma intanto un Greco spaventoso, e tetro
     Ingrossa il mare, e move al legno guerra,
     E dubio il fà, se dè tornare indietro,
     Ó dè afferrarsi à la nemica terra.
     Ma del mar grosso il paventoso metro
     Gli mostra, ch’è men mal, s’egli s’afferra.
     Però che correria per l’aria bruna
     Con troppo gran periglio la fortuna.