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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/337

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Fà il buon padron con l’affannato, e roco
     Strido levar la vela del trinchetto,
     Et appresso al grand’arbor le dà loco
     Per far minor, che puote il suo sospetto,
     E del rabbioso vento sol quel poco
     Prende, ch’à lui può far più fido effetto,
     E intanto il rotto mar rompendo passa
     Con la poppa, e la prora hor alta, hor bassa.

Il romore è infinito, e l’aria è nera,
     E non si vede il cenno, e non s’ intende,
     Ne si può riparare à l’onda altera,
     Ch’ogn’hor con più furor freme, et offende.
     Ma il balenar, che fa l’etherea spera
     Di cosi spessi fuochi il cielo accende,
     Che scopre il mare, e ’l cielo d’ogn’intorno,
     E splender fà di mezza notte il giorno.

Ma ’l notturno splendor mostra il lor danno,
     Che se ’l verno crudel molto anchor dura,
     Far resistenza al mar più non potranno,
     Che già la morte lor veggon sicura.
     Veggon, che tutto il morto perdut’ hanno,
     Ne potrà riparar l’humana cura,
     Da poi, che ’l mar lor tutto il morto ha tolto,
     Che ’l vivo anchor non resti al fin sepolto.

Veggon, mentre arde il lampo in ogni parte,
     Del legno impressa l’ultima ruina,
     Lo schifo tolto, e rotte antenne, e sarte
     Da l’atra tempestosa onda marina.
     Pur quel, ch’ in poppa gli officij comparte,
     Chiede à la gelosia, che gliè vicina,
     Come fa la trireme acqua di sotto,
     E s’alcun legno v’è sdruscito, ò rotto:

Quel, che sotto à la poppa in guardia siede,
     Dimanda à quel di mezzo il punto istesso,
     La camera di mezzo ne richiede
     La stanza de la prora, che gliè appresso.
     Da prora à poppa la parola riede,
     Che legno non v’è anchor rotto, ne fesso.
     Gran ventura è la lor, poi che si trova
     Esser la lor galea spalmata, e nova.

Se bene in su’l mancar de l’aer chiaro
     Per haver men travaglio il buon nocchiero,
     Diè molte cose al mar crudo, et avaro
     Per far restare il legno più leggiero:
     Hor si difficil vede il suo riparo,
     E ’l vento si rabbioso, e ’l mar si altero,
     Ch’ogni più ricca merce, ond’egli è onusto,
     Dona à l’ondoso orgoglio avido, e ingiusto.

L’Aurora già per fare al giorno scorta
     Il volo havea ver l’oriente preso,
     Ma il volto oscuro, e l’habito, che porta,
     Non ha il suo bel color vario, et acceso.
     Mostra il ciglio dolor, la guancia ha smorta,
     Gravi ha le vesti, e ’l crin d’humido peso.
     E l’ali nuvolose, ond’ella poggia,
     Minaccian per quel di grandine, e pioggia.

Si levò il Sol, ma mesto, e lagrimoso,
     Cinto di nubi, e mezzo ascoso il lume,
     E nel levarsi alquanto di riposo
     Presero i venti, e le salate spume.
     Ma rivolgendo il buon nocchier dubbioso
     Per lo confuso ciel l’afflitto lume,
     Se bene il vento, e ’l mar non è tant’alto,
     Par, che trema entro al cor di novo assalto.

Bonaccia à poco à poco il mare, e ’l vento
     Men grave l’aura vien, men’ alto il mare.
     Tanto, ch’un resta muto, e l’altro spento;
     Di sopra il Sole, e ’l ciel lucido appare.
     Fà il nocchier metter fuora il palamento,
     E la ciurma di sotto sprigionare.
     La toglie sotto à la prigion di cerro,
     E dalla sopra à la prigion di ferro.

Nel conquassato legno me’ che sanno
     Dan luogo à remi, e fan drizzar la prora.
     Fra Circio, e Tramontana, e via ne vanno
     Fin che ministra al Sol vien la terza hora.
     Et ecco vien per loro ultimo danno
     Un superbo Austro impetuoso fuora,
     Le nubi sparse subito d’ intorno.
     Tolgono à gli occhi loro il cielo, e ’l giorno.