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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/364

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Orfeo co’l dolce verso unico, e solo
     Fà, che ’l luogo, ove egli è, tutto s’ inselva.
     Lascia ogni arbor, che l’ode il proprio suolo,
     E fa vicino à lui crescer la selva.
     Ogni celeste augel vi ferma il volo,
     Vi corre con l’armento ogni empia belva.
     E ’l sasso, e ’l fonte, e ’l cielo, e gli elementi
     Stanno al suo dolce suon queti, et intenti.

Come in mezzo al concilio de le piante,
     De’ sassi, e de le fiere esser si mira:
     Raccordar vuol pria, che di novo cante,
     La distemprata homai querula lira.
     Stà con l’orecchia attenta, e vigilante,
     E questo nervo, e quel percuote, e tira,
     Fin che prometton far l’usata prova,
     Pur ch’egli i diti, e l’arco à tempo mova.

Con queste note poi comparte il verso,
     Che danno al luogo suo l’accento, e ’l piede.
     Rendi del tuo valor Calliope asperso
     Lo spirto, che ’l tuo chiostro almo mi diede;
     E cominciam dal Re, che l’universo
     Co’l suo favor divin tempra, e possiede.
     Ch’amò quel bel, ch’à l’huom nel volto alloggia
     Mentre à la gioventute aspira, e poggia.

Contra i giganti già l’ ira, e la guerra
     Cantai del sempiterno alto motore,
     Che ne’ campi Flegrei fur posti in terra
     Dal formidabil suo celeste ardore.
     Hor più leggier soggetto il mio cor serra,
     E con più lieve lira il vuol dar fuore.
     Vuol cantar di quel bello almo, e gioioso,
     C’ha l’huom ne’ primi dì, ch’ esser può sposo.

Bramo cantare anchor l’empie donzelle,
     C’hebber d’amore ingiusto accesa l’alma
     E de le pene varie atroci, e felle,
     Che ne sentì la lor terrena salma.
     Hor dal motor principio de le stelle
     Dò, che lasciò la patria eterna, et alma,
     Per la beltà, che in Ganimede scorse
     Mentre un giorno à la Frigia il lume porse.

La Dea, che la più bella età governa,
     Nel nappo trasparente adamantino
     Al Re, che la città regge superna,
     Solea il dolce portar celeste vino.
     Hor mentre in un convito ella è pincerna,
     E che porta il liquor santo, e divino,
     Le viene à sdrucciolare un piede, e cade,
     E quel nettar celeste empie le strade.

E, perche ella era in habito succinta,
     Ne la zona contraria in tutto al gielo,
     E di seta sottil varia, e dipinta
     S’havea coperto il bel corporeo velo;
     Da l’aura la gonnella alzata, e vinta
     Mostrò le sue vergogne à tutto il cielo.
     E de l’alme che stan nel santo regno,
     Mosse i giovani à riso, i vecchi à sdegno.

Subito l’alto Dio dispon la mente
     À far, che ’l vino à lui più non dispense,
     Ne vuol, che donna incauta, e negligente
     Mostri spettacol tale à le sue mense.
     Volge in giù gli occhi quel pensiero ardente,
     Dove fra le bellezze humane immensa
     Ne vede una atta à star fra gli alti Dei,
     E tal, che di beltà non cede à lei.

Era in Frigia un garzon bello, et adorno
     Troio si nomò il padre, ei Ganimede,
     Ch’Ida solea girar sovente intorno
     Dietro affrettando à varie belve il piede.
     Hor mentre ei dà la caccia al cervo un giorno,
     L’occhio del Re del ciel cupido il vede;
     Et havea l’eta sua vaga, et illustre
     Finito à punto il numero trilustre.

Si trovò allhor, che Giove havrebbe eletto
     D’essere in quello stante altri, che Giove,
     Per appressarsi al suo divino aspetto,
     Per rapir le bellezze uniche, e nove.
     Già trasformar fra se dispone il petto,
     Tanto la sua bellezza il pugne, e move.
     Ma spregia ogni altra forma, e sol si serra
     Nel forte augel, che i suoi folgori atterra.