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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/401

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Sposo è di Theti Dea sublime, et alma
     Peleo: ne meno ad alterezza il move
     D’haver con tanta Dea legata l’alma,
     Che di poter nomar per avo Giove.
     À molti vien d’haver la carnal salma
     (Dicea) dal Re, che tutto intende, e move;
     Ma goder d’una Dea l’amore, e ’l bene,
     Hoggi ad un sol mortal fra tutti aviene.

In questa guisa sposa egli l’ottenne,
     Bramando il maggior Dio l’amor di lei,
     Udì, che Proteo un giorno à dir le venne.
     Dà Theti orecchie alquanto à detti miei.
     Tal fama un giorno batterà le penne
     D’un figlio incomparabil, c’haver dei,
     Che in tutte l’opre illustri, alte, e leggiadre
     Fia senza paragon maggior del padre.

Si che prendi da me questo consiglio,
     Homai l’amor tuo contenta altrui,
     E con l’honor di si gradito figlio
     Accresci novi honori à pregi tui.
     Giove, ch’ode il parlar, fugge il periglio
     Di generar chi sia maggior di lui:
     Ne vuol, che ’l suo figliuol sia di tal pondo,
     Che di Giove maggior dia legge al mondo.

Ma, perche ’l figlio, à cui già si prefisse,
     Che più del padre haver dovesse honore,
     D’alcun del sangue suo nel mondo uscisse,
     Per dare al germe lor tanto splendore,
     Chiamò à se Peleo il suo nipote, e disse.
     De la figlia di Nereo accendi il core,
     Invitala à la lotta alma, e gioiosa,
     Che con grand’honor tuo la farai sposa.

Non amava però la Ninfa bella
     Gustar quel ben, ch’ uscir suol dal marito.
     Anzi contra d’amor schiva, e rubella
     Fuggia d’ognun l’affettuoso invito.
     E, perche come à la sua buona stella
     Piacque, dal fato à lei fu stabilito,
     Che potesse occupar varij sembianti,
     Con nove forme ogni hor fuggia gli amanti.

Sta su’l mar ne l’Emonia un sito adorno,
     Che porge un grato, e commodo diporto,
     Dove due promontorij alzano il corno,
     Dentro à cui si ripara un stagno morto.
     E cosi bene è chiuso d’ogn’ intorno,
     Che saria con più fondo un nobil porto;
     Ma l’acque, che continuo il mar vi mena,
     Bastan sole à coprir la somma arena.

Intorno al lago solitario, et ermo
     À guisa d’un theatro un bosco ascende,
     Dove in un tufo assai tenace, e fermo
     Un’ antro à piè del monte entro si stende,
     Ch’altrui fa dal calor riparo, e schermo
     Quando nel mezzo giorno il Sol risplende,
     Di forma tal, che la natura, e l’arte
     Son dubbij chi di lor v’habbia più parte.

Pur l’artificio par, ch’avanzi alquanto.
     Quivi mentre era il Sole alto ver l’Austro,
     Che per lo cielo era montato tanto,
     C’huopo gli fa di dechinar col plaustro,
     Premendo ad un delfin squamoso il manto,
     Theti solea ritrarsi al fresco claustro.
     Dove l’ardor fuggia del maggior lume,
     E giacendo chiudea tal volta il lume.

Mentre la bella Dea chiuse ha le porte
     Per ricreare i sensi à la sua luce,
     Intento Peleo à l’amorosa sorte,
     Come disse il maggior celeste Duce,
     Per farla arditamente sua consorte
     Ne le sue braccia ignudo si conduce.
     Ella si desta, e ’l suo desio ben scorge,
     Ma non però di se copia gli porge.

Vuol l’infiammato Peleo usar la forza,
     Dapoi che ’l prego il suo fin non ottiene.
     D’uscirgli ella di man si prova, e sforza,
     Poi si forma un augello: ei l’augel tiene.
     D’un arbore ella allhor prende la scorza,
     Per annullar la sua cupida spene:
     Ei d’ intorno al troncon getta le braccia,
     E co’l medesmo amor l’arbore abbraccia.