Beata te, cui sol gentili spirti
Per la tua gran beltà volt’hanno il core.
Ch’à piacer tuo da lor puoi dipartirti,
Senza haverne à temer danno, ò disnore.
Misera me, c’huomini alpestri et hirti
Pieni d’ogni schivezza, e d’ogni horrore
Il più fervente in me locar desio
Per far d’eterno duol colmo il cor mio.
E se ben le fatali etheree stelle
Fer la Nereide mia formar figura
Da Nereo, e Dori, e tante hebbi sorelle,
Ch’esser da i danni altrui dovea sicura:
Fuggir però da l’amorose, e felle
Voglie d’un mostro horrendo di Natura
Non potei senza un danno estremo, e intanto
Le tolse la favella il troppo pianto.
Scilla, che gli occhi à lei scorge due fiumi,
Con le candide sue parole, e dita
Le dà conforto, e le rasciuga i lumi,
E soccorre il suo mal di qualche aita.
Deh non lasciar, che ’l duol più ti consumi,
Ma scopri il mal, ch’à lagrimar t’invita,
Che da l’amor, ch’io t’ho portato, e porto,
Havrai fido consiglio, e più conforto.
Poi ch’ella à Galathea sciugò le ciglia,
E placò in parte il duol, che la trafisse:
La Dea del mare alzò verso la figlia
Di Forco, e di Crateide il guardo, e disse.
Prender punto non dei di maraviglia,
Che in lagrime il mio duol si convertisse;
Che quando la cagion n’havrai ben scorta,
Ti maraviglierai, ch’io non sia morta.
Simetide arricchì d’un figlio il mondo
Pur dianzi, che d’un Fauno havea acquistato,
Bello, leggiadro, amabile, e giocondo,
Fra i più lodati spirti il più lodato.
Questi à me sola il cor diede, secondo,
Piacque al mio buono in su ’l principio fato.
E co ’l suo dolce, e gratioso modo
Al fin mi strinse à l’amoroso nodo.
Aci il nomaro, e dal suo nascimento
L’Eclittica havea corsa il Re di Delo
Sedici volte, e ’l suo lascivo mento
Cominciava à fiorir del primo pelo.
Non si potea trovar gioia, e contento
Maggior nel centro immobile del cielo.
Del pari era l’amor, del par l’etate,
È ver, ch’ei possedea maggior beltate.
Mentre io godea si dolce stato, occorse
Per sempiterno mio pianto, e sciagura,
Ch’un fier Ciclopo à caso un dì mi scorse,
E preso fu da l’amorosa cura.
Io ti so dir (s’udito non hai forse
De la deforme lor parlar figura)
Che quella, che vid’io di Polifemo,
Fu tal, ch’à dirlo sol pavento, e tremo.
Era grande il fellone à par d’un monte,
Non che le braccia, i diti parean travi.
I peli de la barba, e de l’inconte
Chiome pareano gommone di navi.
Un’occhio sol nel mezzo havea la fronte.
Pur se ben membra havea si immense, e gravi,
Sì lunge ne l’andare il piè stendea,
Ch’i cervi il tardo suo passo giungea.
Questi bramò di me farsi consorte,
Per gravare il mio cor d’eterni guai.
Io l’hebbi in odio in ver più che la morte,
Ma per lo gran timor no ’l dimostrai.
Hor se da me saper brami per sorte
De l’odio, e de l’amor, ch’à due portai,
Qual fu di più poter dentro al mio core,
Sappi, ch’andò del par l’odio, e l’amore.
Ó quanto è il tuo potere alto, e stupendo
Amor, (chi ’l crederebbe? ) un’huom tant’empio,
Un, ch’à le selve istesse è mostro horrendo,
Che fa d’ogni mortal l’ultimo scempio,
Che sprezza il ciel co ’l suo poter tremendo,
Te sente, Amor, con disusato essempio.
E per servire à la tua santa legge,
Gli antri abbandona, e ’l proprio officio, e ’l gregge.