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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/480

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Come veggiam talhor gli aerei augelli
     Da terra insieme uniti il volo alzare,
     Et in battaglia andar veloci, e snelli,
     E dove posa l’un, tutti posare:
     Cosi gli uniti pesci, come quelli,
     Ch’ardean di ritornar nel patrio mare,
     Volar sopra la siepe, che circonda
     Il prato, e d’un voler calar ne l’onde.

Tal m’ingombrò stupor subito il petto,
     Mi parve si stupendo il caso, e strano,
     Che per uscire io fui de l’ intelletto,
     E pensai co’l pensier quasi non sano,
     Se fosse qualche Dio di tanto effetto
     Stato cagione, ò l’herba di quel piano.
     Prendo quell’herba in man, fatto il discorso,
     E fonne al dente far saggio co’l morso.

Passato era de l’herba il succo à pena
     Per quel, che ne la gola habbiam condutto,
     Per lo qual suol del prandio, e de la cena
     Il cupido mortal gustare il frutto:
     Ch’un novo humor mi sparse in ogni vena,
     Che natura cangiar mi fe del tutto.
     E subito sentij dentro al cor mio
     Novo affetto regnar, novo desio.

Ne molto resistenza al novo instinto
     Io potei far, che da quell’herba nacque,
     Anzi da lui signoreggiato, e vinto
     Hebbi in odio la terra, e ’l mar mi piacque.
     E dal nuovo desio spronato, e spinto
     Saltai la siepe, e m’attuffai ne l’acque.
     Dove à gli Dei, che ’l mare hanno in governo,
     Parve di farmi lor compagno eterno.

Pregar Theti, Nettuno, e l’Oceano,
     Che quel mortal, ch’ in me facea soggiorno,
     Dileguato restar fessero, e vano,
     Perche il volto divin mi fesse adorno.
     Et ecco Tebro, Nilo, Hebro, e Giordano
     Corre à purgarmi, et ogni mare intorno,
     Mentre con gli altri Dei lo Dio Nettuno
     Mi dice il sacro carme, et opportuno.

Dapoi che cento mari, e cento fiumi
     Cadder su’l capo mio per mondo farmi,
     E ’l maggior Dio marin con gli altri Numi
     Cantaro nove volte i sacri carmi;
     D’altre voglie, e pensier, d’altri costumi
     Subito dentro, e fuor sentij cangiarmi,
     E mi dier queste, c’hor mi vedi, membra,
     Ma per qual modo, e via, non mi rimembra.

Basta, che ’l marin Dio restò contento
     Di pormi in mar fra i suoi beati, e fidi.
     E questa verde, e lunga barba al mento,
     E questa nova chioma haver mi vidi.
     Questo novo sentij marino accento,
     Onde à te muovo i miei pietosi gridi,
     E questo pesce, e questa coda scorsi,
     Onde poi tutto il mar sicuro corsi.

Ma che mi giova, oime, se in mar mi prezza
     Tanto Nettuno, e l’Oceano, e Theti?
     E tenuto esser Dio di tanta altezza,
     Fra gli altri Dei del mar tranquilli, e lieti?
     Se ’l tuo sguardo gentil mi schiva, e sprezza,
     Ch’involto m’ha ne l’amorose reti?
     Deh cedi homai donzella al mio desio,
     Che ti farai nel mar consorte un Dio.

Tosto, che marin Nume ella il comprende,
     Non pensa più gittarsi in mezzo à l’onda,
     Ne di salvarsi in quella parte intende,
     Dove quel Dio di più potenza abonda.
     Però per terra un’altra fuga prende,
     Accio che ’l vicin bosco à lui l’asconda.
     Lo Dio, per non noiarla arresta il piede,
     E novo à tanto mal rimedio chiede.

Fra Partenope, e ’l Tebro, appresso al mare
     À Gaeta vicin fea già soggiorno
     Circe, una maga accorta, e singulare,
     Che nacque de lo Dio, ch’apporta il giorno.
     L’altere prove sue stupende, e rare,
     C’havean ripieno il mondo d’ogn’intorno,
     Fer, che Glauco ver lei rivolse il corso,
     Per havere al suo mal qualche soccorso.