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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/502

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Tutta corre l’Italia à questa guerra,
     Sia Re, sia Duca, ò publico domino.
     Altri vengon per mare, altri per terra,
     Secondo è lor più comodo il camino.
     S’arma, e collega ogni Toscana terra
     Per aiutare Enea co’l Re Latino.
     Molti amici di Rutuli, e di Turno
     S’arman contra i nipoti di Saturno.

Enea, per dirne il vero, hebbe gran sorte,
     Ch’ Evandro armò le genti in suo favore,
     Il qual de’ Re vicini era il più forte,
     E la militia havea di più valore.
     Ma perdea forse il regno, e la consorte,
     Forse altri havea di questa impresa honore,
     Se de la Puglia il Re saggio, et antico
     Si lasciava dal suo piegare amico.

Regnava allhora in Puglia il buon Tidide,
     Che, tornato da Troia al patrio tetto,
     Di Grecia si fuggì per quel, che vide,
     Per più d’un suo particolar rispetto.
     Da Dauno al fin con note accorte, e fide,
     E con amico, anzi paterno affetto
     Raccolto, piacque l’uno à l’altro in modo,
     Che si legar con più tenace nodo.

Fatto c’ha il Re di Puglia il primo invito
     Al cavalier, ch’è giunto in quella parte
     E c’ha il prudente ragionar sentito,
     E la maniera, e la militia, e l’arte;
     Gli prende tanto amor, che ’l fa marito
     De la figliuola, e seco il regno parte.
     Hor Turno à questo Re prudente Greco
     Anchor mandò per collegarlo seco.

Ma la sorte d’Enea, c’havea fermato
     Di farlo vincitor di quella impresa,
     Non volle, ch’un guerrier tanto pregiato,
     Seco volesse più prender contesa.
     Anzi poi c’hebbe Venulo ascoltato,
     E ben la volontà di Turno intesa,
     Mostrossi in vista al nuntio mal contento,
     E ’l fe tutto attristar con questo accento.

Per qual si voglia Re non ardirei
     Contra il popol Troian prender più guerra.
     Io non voglio condur gli huomini miei
     À fargli diventar cenere, e terra.
     Troppo amici i Troiani han gli alti Dei,
     Tutti i nemici lor fan gir sotterra.
     Privano ogn’un nemico al Re Troiano
     Ó de la vita, over del volto humano.

Quanti quei fur, che già da l’arse mura
     Di Troia per tornar montar su’l legno,
     Ch’al fermo si credean goder sicura
     La pace, che bramar nel patrio regno ?
     Ma gli alti Dei, che de’ Troiani han cura,
     Contra i miseri Greci armar lo sdegno.
     Di quai molti passar ferne à Charonte,
     Molti viver fra noi sott’ altra fronte.

E, perche tu non creda, ch’ io t’accenne
     Questo, che detto io t’ho, per iscusarme,
     Ti vo dir quel, ch’à molti Greci avenne
     Poi che Troia acquistar per forza d’arme.
     E ben, che ’l dir de l’ affondate antenne
     Di memoria si ria faccia attristarme;
     Non vò però restar di dirti il tutto,
     Seguane quanto vuol dolore, e lutto.

Dapoi che Troia in ogni parte accese
     La fiamma ingorda Argiva empia, e proterva,
     E che ’l Naricio Aiace à forza prese
     La vergine Cassandra, e fella serva:
     Per comun danno in terra la distese,
     E la sforzò nel tempio di Minerva.
     La Dea sdegnossi, e fe per colpa d’uno,
     Che fu nel campo Acheo punito ogn’uno.

Che poi che si partir le Greche navi
     Per tornare à godersi il sen paterno,
     Gl’irati venti, tempestosi, e gravi
     Fer de l’aria, e del ciel proprio un’ inferno.
     Portar le vele via, spezzar le travi,
     Fer perdere al nocchier l’arte, e ’l governo.
     Tanto che per lo mar n’andammo sparsi
     Tempestati dal giel, da folgori arsi.