Io non vò sotto un tanto capitano
Temer di questa putta, e infame Dea.
Ei pur la ferì già di propria mano,
Quando ella aiuto dar volle ad Enea.
Con questo dir superbo, empio, e profano
L’odio risuscitò, ch’ella n’havea,
Agmone, e fè co ’l suo dire importuno:
Ch’ella del suo mal dir punì più d’uno.
Mentre io con molti dolcemente il voglio
Riprender del suo dir troppo spietato,
E mostrar, c’huom non dee con tanto orgoglio
Verso i celesti Dei mostrarsi irato;
Ma che del suo fallire habbia cordoglio,
E chieda à lei perdon del suo peccato:
Dal mio navilio in guisa il vidi torsi,
Che non so, s’io me ’l creda, e pur lo scorsi.
Cerca egli con parlar non meno altero
La voce alzar contra il Ciprigno Nume,
Ma non odo il parlar suo proprio, e vero;
E mentre io tengo in lui ben fiso il lume,
M’accorgo del color contrario al nero
La barba, e ’l crin di lui cangiarsi in piume:
Il manto intorno à lui tutto vien bianco,
Tutto gli arma di piume il petto, e ’l fianco.
De la Ciprigna Dea l’aspra vendetta
A la figura humana ogni hor più noce.
La penna al braccio vien, che ’l volo affretta,
E che in aria il sostien lieve, e veloce.
S’allunga il collo, e la fa più stretta
Al cibo, al respirare, et à la voce.
La bocca forma anchora il duro rostro,
Poi vola augello intorno al legno nostro.
Mentre ch’à novo augello alzo le ciglia,
E che pien di stupor stommi à vedere,
E Lico più d’ogn’un si maraviglia,
Che co ’l cangiato Agmon fu d’un parere;
Veggio, ch’anch’ei la stessa forma piglia,
E con l’ale và via snelle, e leggiere.
Stupido io ’l mostro, e questo addito, e quello,
E ’n tanto Ida, e Nitreo vien anche augello.
Si cangia poi Rethenore, et Abante.
In somma ogn’un de’ miei, che fu conforme
D’opinione à quel primo arrogante,
Vidi andarsene à vol sott’altre forme.
M’inchino, e con parole humili, e sante,
Perche gli altri la Dea non mi trasforme,
Mando preghiere à lei con pura fede,
Che de gli altri miei Greci habbia mercede.
Se brami di saper forse qual sorte
D’augelli fece il mio popol maligno;
Sembra l’augel, che canta anzi la morte,
Cigno non è, ma ben simile al Cigno.
Hor s’io fra tanto mal con poca corte
Il Venereo flagello hebbi benigno,
Non voglio andar contra il suo figlio Enea,
E far di novo irar la Cipria Dea.
Genero al fin da Dauno io fui raccolto
Dopo tante fatiche, e tanti affanni.
Si ch’ostinato esser non voglio, e stolto,
Ne mandar le mie genti à Frigij danni.
Ch’io non gli vò veder sott’altro volto
Batter simili al Cigno in aria i vanni;
Non vò più, che i Venerei aspri flagelli
Gli faccian restar morti, overo augelli.
Si ch’appresso al Signor, ch’à me ti manda,
Opra, che in questo affar m’habbia scusato,
S’io no ’l compiaccio in quel, che mi dimanda,
Che far più non mi voglio il cielo irato.
L’ambasciador, poi che la sua dimanda
Non fece frutto alcun, tolse comiato.
Verso i campi Messapij il camin tenne,
Dove una maraviglia avenne.
Un’antro oscuro in quel sito si scorge,
Che goccia d’ogn’intorno, e forma un fonte,
Ch’à quello Dio biforme albergo porge,
Che due corna di capra ha ne la fronte.
Le Ninfe già per l’acqua, che vi sorge,
Solean lasciar la selva, il piano, e ’l monte
Su ’l mezzo giorno, e fresco essendo il loco,
Vi facean più d’un ballo, e più d’un gioco.