Sol ti vò ricordar, ch’è di tal sorte
Quel, che per te d’amor desio mi preme,
Che no ’l posso lasciar se non per morte,
E però con la vita il lascio insieme.
Oime, ch’innanzi à queste amate porte
Mi spinge il crudel fato à l’hore estreme;
Quì vuol quel rio destin, che mi conduce,
Ch’io privi mè de l’una, e l’altra luce.
La fama, che suol falsa esser sovente,
Non ti farà la mia sorte sapere:
Perche dubbia non sia ne la tua mente,
Te la potrai da te stessa vedere.
Io vò, stando quì morto à te presente,
Che l’empie luci tue possan godere
Di veder questa mia terrena salma
Quì, come tuo trofeo, pender senza alma.
Hor voi, superni Dei, s’alcuna volta
A fatti di quà giù gli occhi volgete,
Dapoi che m’è la maggior parte tolta
De la vita, ch’à l’huom prescritta havete;
Poi che la carne mia sarà sepolta,
La mia memoria almen non nascondete.
E per pochi anni tolti à la mia vita
La fama del mio mal fate infinita.
Stava sopra la porta una fenestra,
Ch’era ferrata à guisa di prigione,
Dove il meschin con la sua propria destra
Havea sospese già mille corone.
Egli, c’ha la persona agile, e destra,
Sopra, senz’altra scala il piè vi pone;
E mentre il ferro, e ’l suo collo infelice
Annoda, alza la voce, e cosi dice.
Queste corone ornar denno il tuo muro,
Queste danno empia à te gioia, e diletto,
Ond’io, che satisfarti ardo, e procuro,
Vò compiacere al tuo crudele affetto.
Come l’un nodo, e l’altro esser sicuro
Scorge per fare il doloroso effetto,
Cader si lascia, e resta alto sospeso
Un’infelice, e miserabil peso.
La scossa data, e ’l calcitrar del piede
Fer fare alquanto strepito à la porta.
Subito l’apre il servo accorto, e vede
Quanto à la casa lor tal peso importa.
Tosto in aiuto altri conservi chiede,
Et à l’uscio del morto il morto porta.
Al qual, perche di già morto era il padre,
Il pianto, e ’l rito pio diede la madre.
La sventurata madre alza la voce,
Vedendo il lin, ch’al figlio il collo allaccia;
Al volto, al sen con le percosse noce,
E le canute chiome afferra, e straccia:
Non però disacerba il duolo atroce
Per pianto, ò per gridar, ch’ella si faccia.
Al fin fe il funerale officio santo,
Non senza universal cordoglio, e pianto.
La fama già battute havea le penne,
E fatto d’Ifi il fin noto per tutto.
Hor mentre per la terra il camin tenne
La pompa con comun lamento, e lutto,
Innanzi à quella porta à caso venne
Il miserabil giovane condutto,
Sopra la qual l’astrinse Anassarete
A ber l’eterno oblio del fiume Lete.
Come sente passar l’empia donzella
La trista pompa, e ’l general dolore,
Che d’esser suta si spietata, e fella
Già qualche pentimento havea nel core,
Corre à veder, dove il romor l’appella,
Sù la fenestra il funerale horrore.
Et Ifi à pena, e quella vista oscura
Mirò, che gli occhi suoi cangiar natura.
Tosto che in quella vista oscura, e tetra
Ferma l’empia lo sguardo, e ’l morto vede,
S’induran per l’horror gli occhi, e di pietra
Si fanno: ella gli tocca, e à pena il crede.
Vuol via fuggir, ma ’l passo non impetra,
Che di già la durezza aggrava il piede;
E in quel, che ’l piede, e ’l volto mover volse,
A l’uno, e l’altro il sasso il moto tolse.