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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/515

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quartodecimo. 252

Ma Giunon, che fu sempre in disfavore
     Del sangue superbissimo Troiano,
     Aprì senza far punto di romore
     La porta, c’havea chiusa il Re Romano.
     Sol la madre dolcissima d’Amore,
     Che ne l’aperto allhor tempio di Giano
     Stava, sentì cader le stanghe in terra
     In disfavor de la Romana terra.

Ben chiusa ella l’havrebbe, ma non lece,
     Che l’opra rompa un Dio d’un’altro Dio.
     Ma ben per Roma un’altra cosa fece,
     Che ’l passo al Sabino impeto impedio.
     Con una calda affettuosa prece
     A le Naiade Ausonie il cor fè pio.
     Et elle, co ’l favor c’hebber, divino
     L’orgoglio indietro star fecer Sabino.

Le fonti lor per vie chiuse, e coperte
     Fecer concorrer tutte in quella parte,
     Dove Giunone havea le porte aperte
     In disfavor del buon popol di Marte.
     Tutte in un luogo poi l’acque scoperte,
     Che prima stavan dissipate, e sparte,
     In tal copia si videro abondare,
     Che non l’osò co’ suoi Tatio passare.

E dove pria era gelato, e poco
     Quel fonte, ch’in un tratto crebbe un fiume,
     Per far le Ninfe più sicuro il loco
     Lo sparsero di solfo, e di bitume;
     Et accesovi poi di sotto un foco,
     Che arde, se ben tien sempre ascoso il lume.
     Fer quel fonte bollir con tal fervore,
     Ch’accrebbe al Re Sabin dubbio, e terrore.

Poi che ’l Duce Sabin dal monte scese
     Per dar l’assalto al principe Romano,
     La nova fonte il passo gli contese,
     Innanzi al tempio aperto allhor di Giano.
     Tal che la Dea, che favorire intese
     Il Re Sabin, aprì la porta in vano:
     Che gli fecer fermar quell’onde il piede,
     E tempo al Re Roman d’armarsi diede.

Romolo intanto coraggioso, e saggio
     L’arme Romane insieme unisce, e serra,
     Perche fatto non sia sì grave oltraggio
     A la nova da lui fondata terra.
     Fuor di Roma ne vien con gran coraggio
     Con tutti quanti gli ordini da guerra:
     E co ’l solito suo core, e consiglio
     Vien co ’l nemico al martial periglio.

Poi che con aspra, e miserabil clade
     Si venne al fatto d’arme oscuro, e tristo,
     E il sangue da le picche, e da le spade
     De soceri, e de generi fu misto;
     Fu da la gloriosa alta bontade,
     A tanta strage, à tanto mal provisto.
     L’amor de le lor donne, e ’l buon ricordo
     Fe l’uno, e l’altro Re restar d’accordo.

D’accordo l’una, e l’altra monarchia
     Depon con questa legge ogni odio, e sdegno,
     Che la nova città comune sia
     A gli huomini de l’uno, e l’altro regno;
     E debbia regnar Tatio in compagnia
     (E d’auttorità giunga ad un segno)
     Col fondator Roman. Servan la legge,
     E del par l’uno, e l’altro impera, e regge.

Ma poi ch’à Tatio giunto à l’hore estreme,
     L’anima uscì de la terrena soma,
     E dui popoli resse uniti insieme
     Senza altro aiuto il fondator di Roma;
     Havendo con le sue forze supreme
     Ogni potenza à lui propinqua doma,
     Nel ciel comparso innanzi al maggior Dio
     Marte in questo parlar le labbra aprio.

Padre del cielo, e mio, quel desiato
     Giorno promesso à me già nasce, e splende,
     Nel qual da me nel cielo esser guidato
     Debbe il Re, che da me d’Ilia discende.
     Hor che ’l Romano impero è ben fondato,
     E dal voler d’un principe dipende;
     Ratifica il tuo detto, e fa, ch’io guide
     Fra l’alme il tuo nipote elette, e fide.