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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/527

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L’alme non posson mai sentir la morte,
     Perche fur fatte eterne, et immortali:
     Ma van, come di lor porta la sorte,
     I corpi ad animar d’altri animali.
     E mi sovien, che ne la Frigia corte,
     Quando Troia sentì gli estremi mali,
     Io era Euforbo, e già di Panto nacqui:
     Quivi al fin Menelao ferimmi, e giacqui.

Nel petto qui con l’hasta un colpo crudo
     Mi diè, tal che fe via l’anima andarne.
     E in Argo il mio riconosciuto ho scudo
     Nel tempio di Giunon piagato starne.
     Tosto, che de la carne resta ignudo
     Lo spirto, ad animar corre altra carne.
     Cosa non può giamai perire alcuna,
     Ma ben loco cangiar, forma, e Fortuna.

Da questo corpo qui l’alma si parte,
     Et à quel corpo là subito arriva.
     Ritorna poi di quella in questa parte,
     E in varij tempi varij corpi avviva.
     E se ben l’alma nostra ha ingegno, et arte,
     Talhor va in qualche fera, e la fa viva.
     L’alma talhor di un lupo, ò d’un leone
     Dentro al corpo d’un’ huom s’annida, e pone.

Come la cera hor questo, hor quel suggello
     Soglion mostrar di nova imago impressa;
     E se ben forma hor questo volto, hor quello,
     È la cera però sempre la stessa:
     Cosi, se ben nel lupo, ò ne l’agnello
     Avien, che la nostra alma si sia messa;
     L’anima è la medesma, ch’era prima,
     Anchor che nova imagine l’imprima.

Hor, perche il ventre rio fuggir non faccia
     Ogni pietà da voi, vi dò conforto,
     Che lasciate la carne, e che vi piaccia,
     Che vi nutrisca il mele, il latte, e l’horto.
     Che far potreste à tavola, et à caccia
     À qualche spirto, à voi congiunto, torto.
     Non cibi il sangue il sangue con periglio,
     Che mangi il figlio il padre, il padre il figlio.

E poi, che ’n alto mar mi son condotto,
     E che vento propitio il legno move,
     Vi vò mostrar, che non è cosa sotto
     Lo ciel, ch’al suo girar non si rinove.
     Sia che si sia qua giù, com’ è corrotto,
     Si vede rivestir di forme nove.
     Ciò, che trovar si puote, è errante, e vago
     E prende andando ogn’ hor novella imago.

E ’l tempo sempre appar con nova fronte,
     E d’hora in hora un novo tempo sorge,
     Come corre ogn’ hor novo il fiume, e ’l fonte,
     Che sempre verso il mar nova onda scorge.
     Perche l’acqua, che pria calò dal monte,
     Quella stessa non è, c’hor vi si scorge.
     Quella, che vi passa hor, più non vi fia,
     Che l’altra onda, che vien, la fa gir via.

E cosi giustamente i tempi fanno,
     Ch’un fugge, un segue; e sempre han vario stato:
     E rinovano il giorno, il mese, e l’anno,
     Ma non rifan giamai quel, ch’è già stato.
     Vien notte, e poi le tenebre se ’n vanno,
     Et apparisce il dì lucido, e grato.
     Viene una notte poi del tutto nova,
     Che quella, che fu già, più non si trova.

Ma non veggiamo noi, che ’l giorno stesso
     Non mostra tuttavia la stessa luce;
     Che la sera, e ’l mattin rosseggià oppresso
     Dal vapor, che la terra, e ’l mar produce:
     Ma quando al nostro globo è men dapresso
     Il Sol, ne l’alto ciel più chiaro luce.
     Ch’à noi non può mostrar rosso il suo lume
     Il vapor, che fa il mar, la terra, e ’l fiume.

Ne la Dea, de lo Dio lucido, e biondo
     Sorella, ogni hor la stessa à noi si scopre;
     C’hor è cornuta, hor mezza, hor pien’ ha ’l tondo,
     Hor tutto ’l lume suo nasconde, e copre.
     E fa le cose anchor del basso mondo
     (Qual si sia la cagion, che questo adopre)
     Hor piene, hor vote; e viene ancho ad oprare
     C’hor scema, hor cresce, e mai non posa il mare.