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E se da questo quelle fiamme impetra,
Che ne le sue caverne ampie, e terrene
I venti fanno urtar pietra con pietra,
C’hanno il seme del foco entro à le vene:
Non però me dal mio parere arretra,
Perche, come à le parti alte, e serene
Potranno uscir gl’ imprigionati venti,
Quei fochi resteran del tutto spenti.
E se vena di solfo, e di bitume
Fà, che continuo ardor di quel mont’esca;
Convien, che ’l foco, e ’l tempo la consume,
Ch’esser non può, che in infinito cresca.
Tal che non manderà più in aria il lume,
Tosto che manchi al foco il cibo, e l’esca.
Tanto, ch’è ver, che ’l monte ivi infiammato
Non è quel, che sarà, ne quel, ch’è stato.
Appresso à l’ Hiperborea Pallene
Di tal virtute una palude ha l’onde,
Nomata Tritonica, che s’aviene,
Che nove volte un’ huom quivi s’affonde,
La penna intorno à lui subito viene
In copia tal, che in uno augel l’asconde.
Alcune maghe in Scithia empie, e fatali
S’ungon le membra, e fansi augei con l’ali.
E se pur qualche fè quelle cos’ hanno,
Che tutto il dì si veggono avenire,
Tutti quei corpi, che si putrefanno,
Non si veggono in breve convertire
In animai, che poi spirano, e vanno?
E qual cosa esser può più di stupire
De l’Ape? che d’ambrosia il mondo pasce,
Riguardando al principio donde nasce?
Mille, e più volte s’è vista la prova,
Che da gli eletti, e putrefatti Tori
De l’Api la progenie si rinova,
Che si soglion nutrir di manna, e fiori.
Poi la città, che ’l lor consiglio approva,
Empion di quei dolcissimi liquori,
Che necessarij sono al lor governo,
Mentre gli amati fior lor toglie il verno.
E d’un corsier magnanimo, e gentile,
Che serve tanto à l’uso de la guerra,
Non nasce il Calavrone infame, e vile,
Se morto à putrefar si pon sotterra?
Del Granchio un’ animal più à lui simile
Nasce, se senza braccia si sotterra;
Del tristo Scorpion prende la faccia,
Che co’l crudo velen morte minaccia.
Tosto, ch’à un corpo una forma s’invola,
Forz’è, ch’un’altra forma abbracci, e brame.
Un verme d’una picciola Tignuola
Nasce, che ’l molle fil rende, e lo stame.
Di verme fassi una Farfalla, e vola,
Ne vuol più incatenar l’antiche trame.
Il Colombo, il Pavone, e gli altri augelli
Si fan d’un uuovo greve aurei, e snelli.
Quel seme, onde le Rane hanno gli heredi,
(Ch’ il crederia?) si genera di loto.
Che nascon da principio senza piedi,
E poi gli acquistano atti al salto, e al nuoto.
De l’Orsa da principio nascer vedi
Un parto, che per parto non è noto;
Poi la lingua materna il forma tale,
Che ’l fa d’un corpo informe un’ animale.
E l’Api ne la lor picciola cella
Hanno i principij lor di membra ignudi,
E prima, che ’l piè formino, e l’ascella,
Se ne stanno un gran tempo inette, e rudi.
Poi vola ogn’una via leggiadra, e bella
À far servitio à lor publici studi.
La midolla de l’Huom morto, e sepolto
Putrefatta, che s’è, d’un’ Angue ha il volto.
Pure ogni forma, c’habbiam detta nova,
Da l’altrui corpo il suo principio attende.
Ma v’ è un’ altro animal, che si rinova,
E da se stesso il suo principio prende.
Un singulare augello si ritrova
Dove più grato odor l’Assiria rende;
Ch’è detto da gli Assirij la Fenice,
Sopra d’ogni altro augel bello, e felice.