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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/86

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Giunge intanto de i can la prima schiera
     De i presti veltri affaticati, e ingordi
     Di far sul dorso à la cacciata fera
     I musi loro insanguinati, e lordi.
     Ei, che non ha la sua favella vera,
     Gemendo prega i can spietati, e sordi,
     E inginocchiato à lor si raccomanda,
     Volgendo il volto à questa, e à quella banda.

Questo, e quel di quei due diventa roco,
     E si duol, che ’l Signor non è presente,
     Ne può gustar di quel piacere un poco,
     Di sì degno spettacolo niente.
     Ma il miser, che non è fuor di quel loco,
     Ne vorrebbe del tutto esser absente,
     Che vede esser per lui spettacol tale,
     Ch’altri gusta il piacere, ei sente il male.

E tanto più, ch’ogni altro cane è giunto,
     E par, che mordan tutti quanti à prova.
     Ne più si vede nel suo corpo un punto,
     Da poter darvi una ferita nova.
     Così Atteone al fin steso, e defunto
     Da i cacciator, che giungono, si trova.
     E così vendicata esser si dice
     La Dea contra quel giovane infelice.

Per questo in gran romore il mondo venne
     Per la gran crudeltà, ch’ usò Diana.
     E la parte maggior conchiuse, e tenne,
     Che fu troppo crudele, et inhumana.
     Non mancò già chi ’l contrario sostenne
     Che per servarsi et incorrotta, e sana
     La fama d’esser vergine, e sincera,
     Doveva in quel castigo esser severa.

Sopra ogni altro Giunon la loda forte,
     Che ’l facesse morir con quel martoro,
     Non per ragion, ma perch’ella odia à morte
     Cadmo co i figli, e tutto il sangue loro.
     L’odia, che per Europa il suo consorte
     Già non si vergognò di farsi un toro,
     Per una hor più che mai sospira, e langue,
     De l’odioso à lei Sidonio sangue.

Giunon sapea non senza gran dolore,
     Ch’ à Giove il core ardea nova facella,
     Che Semele godea d’ingiusto amore,
     Ch’allhora il primo havea grado di bella
     Figlia al primo di Thebe Imperatore,
     A cui già tolse il toro la sorella.
     Hor quel, che fa Diana, le rammenta,
     Com’ella à vendicarsi è troppo lenta.

Oime, che da ciascun vendetta è presa
     Contra questa impudica, e infame gente,
     E Giunon, che n’è più d’ogni altra offesa,
     Si stà da parte, e non se ne risente.
     Ogni alma illustre di giust’ ira accesa,
     Di desio di vendetta arma la mente,
     Io stommi, e ogn’una homai Giove mi toglie,
     E pure io son di lui sorella, e moglie.

Sorella io ben gli son; ma moglie in vano
     Mi chiamo più di lui, se più no ’l godo,
     S’ogn’ hor l’empio figliastro di Vulcano
     Con novo amor me ’l toglie, e novo modo.
     Ma ben di questo amore al tutto vano
     Farò quel forte indissolubil nodo,
     Ond’ha legato il mio marito, e preso,
     Con modo non più usato, e non più inteso.

Regina esser del ciel detta non voglio,
     Ne seder più sul mio sublime seggio,
     Se non isfogo in modo il mio cordoglio,
     Ch’à lei desiderar non sappia peggio.
     Madre del seme, ond’io madre esser soglio,
     Vuol farsi, e già n’è grave, à quel, ch’ io veggio,
     Del seme del maggior celeste padre,
     Di cui sola Giunon debbe esser madre.

Contra lei vendicarmi in una volta
     Voglio, e contra l’ingiusto mio consorte;
     E farò, che costei sarà sì stolta,
     Che di sua bocca chiederà la morte.
     E vorrò, che le sia la vita tolta
     Da Giove suo, da chi l’ama sì forte.
     Così s’avolge in una nube, e scende
     In terra, e verso Thebe il camin prende.