Pagina:Panzini - Diario sentimentale della guerra, 1923.djvu/296

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«Quanto lavoro cl sarà dopo la guerra. Ed a quanti mutamenti assisteremo! Quante cose scriveremo! Se pure avremo la fortuna di sopravvivere...».

Con queste parole ci sa’utò Renato Serra, quindici giorni or sono, prima di partire per il fronte, quando l'accompagnammo verso la stazione, dopo avere passato lunghe ore, con lui, nella redazione del giornale, sotto i portici, nelle prime luci mattutine.

Partiva sereno e fiducioso nella vittoria, entusiasta dei nostri soldati e del generale Cadorna; tranquillo come era sempre, con quel suo aspetto distinto e aristocratico che faceva di lui un bellissimo soldato.

Eppure egli pareva quasi attendersi la sorte che doveva travolgerlo nel furore di una mischia ; un vago presentimento attraversava di tanto in tanto il suo spirito senza turbarne, peraltro, la calma abituale.

Aveva desiderato ardentemente la guerra; l’aveva voluta per ragioni diametralmente opposte a quelle che suscitarono l'intenso movimento popolare degli ultimi giorni, che posero fine alla neutralità; Paveva voluta sperando in una rinascita dello spirito nazionale, in una ripresa di quelle idealità, che gli ultimi anni parevano avere assopite in tutte le classi sociali. Sperava che dalla guerra sarebbe sortita una classe dirigente, consapevole dei suoi doveri, capace di rimorchiare il magnifico ed originale movimento democratico degli ultimi anni, troppo intento al benessere materiale.

Conoscitore profondo della filosofia moderna, di tendenze hegeliane, negli ultimi tempi era ritornato a Kant, che gli pareva ancora la posizione più forte della speculazione moderna, fino a ritenerla insuperata. E lo stùdio di Kant perfezionava con quello di Platone, nel quale trovava quella armonia che si addiceva al suo spirito sereno, la risposta persuasiva a quel bisogno ideale, che la metafisica tedesca aveva risolto in un crudo realismo. Era persuaso che gli eterni problemi della immortalità dell'anima, di Dio, della esistenza del male e della resurrezione dovessero ritrovare il loro diritto di cittadinanza nella filosofia, dalla quale erano stati banditi dopo il trionfo del razionalismo germanico. Come egli riuscisse, però, a conciliare il razionalismo soggettivista con le tendenze e le esigenze platoniche del suo spirilo, non so. Egli si proponeva appunto, di riprendere, dopo la guerra, lo studio di questi eterni problemi e di portarvi il contributo della sua mente.

Profondamente cristiano, mi parlò, l'ultima sera, della perenne vitalità del cristianesimo con una profondità cosi commossa e appassionata, che mi sorprese in lui, parlatore cosi parco, che amava quasi nascondere il suo pensiero in una timidezza pudibonda.

Vi sono leggi della vita abbastanza misteriose tuttavia: esse tèndono a far scomparire dalla