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Uno scotimento improvviso di piattaforme stridenti a l’urto del treno, un rimbombo sotto una galleria di vetri, in mezzo a una luce scialba che toglieva la vista; e il convoglio s’arrestò quasi di colpo. Si era giunti.

G. Giacomo scese. La macchina era lì a pochi metri davanti, asimante, fumida di fuliggine, sempre pronta a ripigliare la sua corsa.

La folla dei viaggiatori lo travolse ne la discesa dai vagoni, nel marciapiede d’asfalto sino a la sala d’uscita.

Si trovò sotto una grande tettoia, dinanzi ad uno spiazzale, su cui batteva la stessa luce bianca da certi globi immoti in alto, lontani, fra la nebbia. Una fila di omnibus, un incrociarsi di grida aspre dei famigli de gli alberghi, più lungi un’altra fila di carrozzelle coi lumini fiochi, i cavalli curvi, i cocchieri fermi a cassetta: si riempivano di quella fiumana di gente e via di galoppo.

Montò in un omnibus, vi si rassettò in un angolo, e poi si partì con gran fragore su l’acciottolato.

Passavano palazzi superbi, alti di cinque o sei