Pagina:Panzini - Il libro dei morti, 1893.djvu/28

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A quel tempo G. Giacomo era un buon abatonzolo nel seminario arcivescovile e vi studiava filosofia e un po’ di teologia. Alto, tarchiato, con un faccione tutto a bitorzoli e peluria nascente fine fra certi peli già irti e maturi, senza una fisonomia decisa, anzi con una fisonomia apertamente brutta, come sogliono avere in gran parte i giovani di quell’età, in cui l’adolescente muta pelle e diventa uomo. Aveva certe gambe polpacciute che si vedevano i muscoli guizzare sotto le calze di bavella nera; due piedacci che andavano qua e là senza garbo ne le loro scarpe basse e scalcagnate con la fibbia d’argento. Una sua zia (la mamma gli era morta da un pezzo) gli teneva a sesto il corredo e gli faceva per l’inverno certi manichini di grossa lana nera ed oleosa, da cui saltavano fuori due manacce nocchierute ed ispide, e parevano più atte a reggere la vanga che il torchietto in coro.