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106 il romanzo della guerra

18 Settembre. Venerdì.

Lacerba del 15, porta un articolo un po’ becero — come il solito — del Papini, ma simpatico. V’è anche un nobile scritto di Soffici. Fa — e si rivolge ai Germani — un confronto fra la cultura latina e la cultura germanica. Lo so: «Per cultura noi intendiamo quell’alleggerimento dello spirito che lo porta a godere profondamente delle armonie segrete della natura amata nella sua semplice concretezza, delle eleganze, dei pensieri luminosi, di tutte le bellezze in un’atmosfera di serenità iridata e felice. Siamo lontani, come vedete, dal vostro nuvolismo metafisico, dalla vostra sentimentalità, dal pastone dei vostri dottorismi, della vostra istruzione compilatoria».

Vero! o, almeno, vero per noi solitari d’Italia. Ma oramai non si tratta più di cultura, ma di mortai.

Lacerba non contiene disegni futuristi nè parole in libertà, e così leggo che Parigi non contiene più apaches, non case da gioco, non fastosi restaurants. Che proprio occorra la guerra per avere un poco di purificazione?

Il Giornale d’Italia ha in testa, a gran caratteri: «Quello che occorre affinchè l’Italia nessun detrimento abbia a soffrire dalla neutralità:

1. Una salda posizione diplomatica;

2. Un milione di armati, pronti ad ogni evenienza»