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dalla padella nella brace 33


— Ma vi sono dei banditi in giro? — domandai alla guida.

— Una volta: ma adesso è sicuro come in chiesa: niente, niente paura.

Gli zoccoli dei somieri sul selciato e l’arrestarsi sotto all’osteria chiamarono l’ostessa alla finestra.

— Perchè è chiusa la porta? — domandò la guida.

— Non lo sapete che è già sonata l’ora di notte? ora vengo ad aprire. Oh, Menico — sentii che diceva di dentro — va ad aprire.

E Menico — un bel giovanotto, alto, aitante, civile, il figlio dell’ostessa, ci venne ad aprire. «Buona sera loro!» disse squadrandoci per bene in volto.

Salimmo al primo piano ed entrammo nella cucina dell’osteria. L’ostessa e l’oste — un bell’uomo barbuto — stavano cenando.

Finalmente! e ci sedemmo, che proprio non ne potevamo più, sulle seggiole che ci erano state offerte: e l’uomo si era levato e apparecchiava la tavola e la donna a levare la fiamma dalle stipe e sbattere le uova, affettare il prosciutto, imbandire il fiasco, il cacio: e le faccende condiva di buone parole e gaie come si conviene ad un’ospite.

E la frittata, grande come una luna piena, e fumante fu levata dalla padella. La guida aveva già posto mano ad una enorme pagnotta e tagliava parsimoniosamente col coltello certe fette larghe che scomparivano nella bocca che si apriva grandissima fra le grinze del volto.

Eravamo felici: la felicità placida del riposo e del pasto conquistato con la fatica.