Pagina:Panzini - Lepida et tristia.djvu/124

Da Wikisource.
46 dalla padella nella brace

zoni, ed io quella mattina esperimentai la verità della sentenza.

— Poniamo che i malandrini — pensavo io fra me — sequestrassero la mia compagna, imponendo una taglia!...

(Questa supposizione si prestava a certi corollari di cui farò grazie a chi legge).

Come discesi nella stanza a basso, il sole era già alzato.

Una mattina fresca, deliziosa, trasparente, tutta olezzi e rugiada. Oh, come sarebbe stato piacevole riprendere il viaggio senza quei maledetti banditi!

— To’ guarda! dieci giorni di carcere starebbero proprio bene — dissi sdegnato al vedere le due carabine, lì in cucina nel posto medesimo dove le avevano lasciate alla sera.

L’ostessa stava facendo il caffè; sul tavolo avea preparato le tazze e una scodella di latte.

Vennero giù i due carabinieri e mi salutarono a pena.

— La mia sposa, voglio la mia sposa! — urlò l’ubriacone, battendo col pugno sul tavolo.

— Ecco la sposa! — disse la donna che pareva accostumata a quella frase, e portò due bottiglie e ne riempì un bicchiere da tavola, metà di rhum e metà di mistrà.

— Contento, così?

— Va bene! — e rivolto a me, credette opportuno aggiungere: — Sono rauco: del resto un bicchierino mi basta.

— Difatti.... — dissi io seccamente, e seguitai a pensare a’ miei casi, e quegli a bere.

— Dov’è suo figliuolo? — chiesi io accostandomi all’ostessa.

— È andato via col cane a caccia prima dell’alba — rispose sottovoce la donna. — Se c’era lui in casa, non glielo