Pagina:Panzini - Lepida et tristia.djvu/127

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dalla padella nella brace 49


— Basta che si arrivi sicuri, senza far cattivi incontri, un po’ prima o un po’ dopo, è lo stesso.

Le domandai se avesse dormito bene la notte e mi rispose di sì.

— Un po’ fondi quei materassi, e ogni volta che ci si muove fanno un rumore....

La vista poi del latte munto, del burro fresco, delle croste di pane abbrustolito che l’ostessa avea allora posate, calde calde, sul desco, finì col rabbonirla del tutto: e si mise a mangiare con grande raccoglimento e soddisfazione.

Ed io che la vedevo immergere nel denso latte quelle fette di nero pane spalmate di burro e poi mangiarsele — se non avessi avuto altri pensieri allora per il capo — avrei meditato sull’opportunità, per ogni uomo che viaggi con donne, di portar seco sempre qualcosa di pronto e di efficace onde, come elle sono agevolmente immemori, scordino la causa del malumore e in qualche modo si riconfortino: al quale effetto allora valeva quel caffè e latte montanino.

E così stando, sentimmo a un tratto i due carabinieri che in quel mezzo di tempo erano saliti alla loro stanza, scenderne a precipizio, l’un dietro l’altro: afferrarono le loro carabine — lasciate, come ho detto, lì in cucina — e si buttarono giù per le scale.

— Che c’è — domandò la mia compagna levandosi in piedi.

— Che c’è? — domandai io all’ostessa.

Ma essa, senza darmi risposta, avea buttato via una padella che teneva in mano, e su per le scale al piano superiore.

Corsi alla finestra e vidi i due carabinieri che già avevano oltrepassato il villaggio e correvano disperatamente per la radura.

— Qui c’è del mistero, oh, che imbroglio! — pensavo