Pagina:Panzini - Lepida et tristia.djvu/137

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la morte di un re 59


continuava, soltanto che la finzione aveva una parvenza di realtà.

Li avea visti spesso nel cielo i falchi o, più esattamente, me li avevano indicati.

Nel cielo lucido del mattino avea visto certi uccelli che un più trionfal giro volgevano nel cielo: poi si libravano in alto e disparivano nella superba profondità dell’azzurro. Ne avea chiesto ai villani e quelli, sospendendo il placido lavoro della vanga: — Son falchi! — dicevano, — tutta l’aria ubbidisce a loro: quando ci sono quei signori lassù, non vedrai altri uccelli volare e cantare.

Ora un falco stava in mia balia e lo contemplavo con avida curiosità per iscoprire il segreto della sua potenza. Lo avrei pensato più grande, come un tacchino almeno o un pavone. Era un piccolo re, grosso come una colomba. «Sei un piccolo re!» gli dissi.

Piccolino era infatti, liscio, grigio, con due zampe aduste come due ferri da calza; immobile, con la testa piatta ritirata fra le penne. Immobile come una mummia, supremamente indifferente alle mie ispezioni.

— Dico a lei, signor falco, ha inteso? le ho detto che lei è un piccolo, anzi ridicolo re! — e siccome quegli pareva non tener conto alcuno delle mie parole, tanto mi accostai col dito che lo toccai. Non lo avessi mai fatto! Quel re disprezzava le parole, ma non ammetteva scherzi di mano. Fulminee vidi aprirsi due alacce smisurate che pareva impossibile dovessero star rinchiuse in quel piccolo corpo, e in pari tempo mi ritrassi con la mano ferita; il dosso della mano portava l’impronta di cinque scalfitture, dove il sangue segnò cinque tracce di avvertimento. Come ebbi a lungo contemplata la mia ferita.