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68 sotto la madonnina del duomo


la sua destra minacciata dal crampo degli scrittori per effetto dello straordinario lavoro.

— Dunque voi ci volete lasciare, Don Ambrogino? — gli chiedevano i conoscenti. — Ma vedete che bellu mare, che bellu cielo, che belli fiori: qui le zaghere fioriscono tutto l’anno, qui bevete del vino di Gragnano che lo avrete a rimpiangere, qui potete stare alla buona, in maniche di camicia e nessuno vi dice niente: fermatevi fra noi, Don Ambrogino!

Ma Don Ambrogino alzava gli occhi al cielo come a dire, compassionando: — Povera gente, cosa possono capir mai loro di quello che adesso è la Capitale morale? Il sole? il mare? — E per cortesia rispondeva talvolta: — Il mare? Ma non sapete cos’è il lago di Como? Il vino di Gragnano? Ma voi non avete l’idea di che cosa è il Barbèra fino che si beve a Milano! Il sole? Ma il signor Edison con le sue lampade ha messo in pensione la luna e fra poco metteremo a riposo anche il sole. Il progresso non basta conoscerlo, bisogna sentirlo!

Quando dunque sbarcò definitivamente a Milano — una grigia alba di autunno — tanta fu la carità del natio loco che quelle lampade elettriche, immote come lune morte, attorno a cui gemeva e friggeva la nebbia, gli parvero più belle del sole puro che avea lasciato a Sorrento; e quando il conduttore del tram, assonnato e rozzo, lo scosse con un: Ehi lu, go minga daa el bigliett? — gli si allargò tutto il cuore e gli parve che la più armoniosa e la più pura favella italiana fosse quella che si parlava

presso il bel fiume Olona a la gran Villa.