Pagina:Panzini - Lepida et tristia.djvu/197

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antidotum impietatis 119


— Io non vi guardo, — ripetè. — Io sono cieco.

Messer Anastagio fissò meglio, e vide che le palle degli occhi erano state strappate via ed erano rimasti due buchi neri nella testa come si vede nei teschi; e parevano grandissimi ed orrendi.

— E allora chi ti ha condotto fin quassù?

— Il mio cane, domine. È lui che mi conduce per il mondo....

E continuò con quella specie di sistro la cantilena.

— Ehi, Biondotto, ehi. Morello! — chiamò forte, sghignazzando, messer Anastagio.

Vennero fuori due facce da scomunicati che facevano paura.

— Va là, torci il collo a quella bestia! — comandò, sghignazzando sempre, messer Anastagio, — così lui non gira più il mondo a spaventar la gente.

Il can barbone non capì e, immoto com’era, pareva meditare nella sua testa tonda; ma ben capì il pellegrino che interruppe il canto, levò le braccia, levò la barba e parve diventar grande come tutto il ponte levatoio. Poi tirò la catena con violenza; ghermì, si strinse il barbone sul petto come una madre fa col bambino e rimase lì davanti messer Anastagio con le gambe spalancate, l’una avanti, l’altra dietro, in atto di sfida, le occhiaie fisse, e dalla bocca aperta non uscivano parole, ma come un rantolo. Invece di fuggire stava lì che parea per disfida ed era invece per terrore.

— Dai, Biondotto! dai, Morello! — incitò il bel signore che ci pigliava un gusto matto.

I due si buttarono sotto. Fu una rissa feroce. Finalmente i manigoldi riuscirono a strappar il barbone dalle braccia del mendicante.

Il quale scese giù a gran passi la via del castello, e ogni momento si voltava indietro verso messer Anastagio con le braccia aperte e i pugni chiusi e si udiva come