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— la coglievano dei frulli di bizzaria. Correva di stanza in stanza, spalancava gli usci e si fermava in attitudine di reginella su le soglie. La qual cosa si poteva interpretare, o come un bisogno di maggiore spazio o come un’affermazione della sua proprietà.

Così pure ogni tanto si fissava nel vuoto, cercando nelle chiuse stanze ciò a cui la sua pupilla era abituata: il verde dei campi, l’azzurro dei cieli.

— Bù! Bù! — faceva ogni tanto, e forse chiamava per reminiscenza il buon cane.

Ma poichè il cane più non appariva, così Puccin docilmente ritornava alla sua misera bambola.

Puccin, sì per sempre Puccin!

— Come ti chiami, bella bambina? — le chiedevano quelli di casa facendole intorno corona. — Ti chiameremo Signorina Iosephine.

— No, Puccin! — ed era solo per questo che Puccin diventava rossa di rabbia. Voleva che le fosse serbato il nome che Piero e Nena, i buoni villani, le avevano dato.