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154 i trionfi di eva


Breve la lotta tra l’ammirazione e lo sdegno: poi soggiogata, vinta, incatenata al suo posto, con un fermento del sangue entro il corpo immobile, fissò quelle splendenti femine, quasi serafiche e quasi beate nella impudicizia sicura. Poi più nulla, poi null’altro che un’ansia che il sipario si levasse ancora, un’avidità angosciosa di udire, di vedere sempre di più: quando uno scroscio di nuovi applausi la scosse.

Salutavano Cleo de Merode.

Fra lo scintillio dei brillanti di cui era coperta, quasi vestita come le imagini miracolose dei santuari, feriva uno scintillio più forte: quello de’ suoi occhi.

E intanto l’applauso, fragoroso, cresceva; saliva sino al delirio. Un fremito, una febbre scuoteva il teatro. Inabissare parea dovesse il teatro: uomini e donne lanciavano fiori, parole, grida: e lei, ieraticamente composta, sorrideva a pena, e danzava.

Sorriso della vita, incarnazione della vera vita parve a Nadina la meravigliosa femina.

Un’ombra proiettava su quella luce, ed era la sua esistenza umile e occulta: e Nadina la maledisse nel cuore e sorrise a quella luce e a quel trionfo: l’una palma della mano cadde sull’altra, inconsciamente. Applaudì!

Era scomparsa Cleo de Merode: qualcosa di nuovo avveniva sulla scena, qualcosa che Nadina non ben comprese: fissava e non comprendeva.