Pagina:Parabosco, Girolamo – Novellieri minori del Cinquecento, 1912 – BEIC 1887777.djvu/185

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cosa che egli vide iscritta fu un capitolo, il quale a legger-cosi incominciò:

Né folta nebbia di sospiri ardenti, né larga pioggia, oimè! d’amaro pianto, né singulti, né prieghi, né lamenti;

né fra tutti i mortai portare il vanto di lealtá, di fé, di sofferenza, con si grave tormento e dolor tanto;

né lungo amor, né lunga esperienza di vera servitú, di fido amante, né volto afflitto o pallida presenza;

ne Tesser stato ognor saldo e costante a vostra alta durezza, alle vostr’ire, piú ch’a ferro non sta saldo diamante;

né quelle voci poi, né quel languire, che mille volte e piú v’ha pur mostrato ch’io poco lungi era a dover morire;

né Tesser tante e tante volte stato alla pioggia, al seren la notte e ’l giorno, in ogni tempo, al caldo ed al gelato;

né l’aver poscia a mio potere intorno fatto udir la beltá del vostro viso, in cui sempre il mio cor fece soggiorno, né Tesser stato ognor da me diviso, senz’alma ognora, ognor mesto per voi, o angelo crudel di paradiso;

né l’avermi con tutti i dardi suoi in piú di mille parti aperto il petto Amore, ed arso con la face poi ;

né l’avere adorato il vostro aspetto ebbe unqua forza di scemare un poco l’alto del mio morir vostro diletto.

Laonde, ingrata, i miei sospir di foco, le lagrime, i lamenti e le querele, per ch’io, gridando invan, son fatto roco, e quel martir, via piú ch’assenzio e fele amaro, a morte volgo, e priego ch’ella termini questa mia vita crudele.