Pagina:Parabosco, Girolamo – Novellieri minori del Cinquecento, 1912 – BEIC 1887777.djvu/189

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Non sentirò» le stelle alcuna notte dolersi tant’uom mai, né colse fonte dal ciel tant’acqua, allor che nube il sole piú nasconde e piú cela a’ nostri giorni, come lamenti e pianti io spargo in foco da questa bocca, oiinè! da queste luci.

Voi soffrirete, o luci, eterna notte, finché consume il foco il vostro fonte; ché i giorni hanno per voi perduto il sole.

— Che vi pare? — disse il Contarino. — Non si possono dir mille cose leggiadramente nella sestina? Io per me vi dico che il Petrarca mi piace forse tanto nelle sestine quanto nelle canzoni, né so s’io m’abbia per maggior difficultá il fare una bella canzone. — Udite — disse allora il Corso, — ché apunto dietro segue una canzone, e, s’io non m’inganno, ella è pastorale, e ha un principio che molto mi piace, perché è fuor d’uso. —

— Pei que’ bei crin — comincia Aminta — giuro, che’n si dolce prigion rinchiuso m’hanno con mio si gran contento, che piú che morte libertá pavento; giuro, Glori — dic’egli, — che si nel cor mi stanno le tue bellezze, e si ’l tuo sguardo curo, che, mentre meco avrò di lor memoria, non avrá duolo alcun di me vittoria, bendi’ io fossi fra quegli che, senza speme, eterno hanno il martoro; fra’ quai s’andassi, andrei perch’io t’adoro.

— Io per questi occhi tuoi — risponde allora Clori, — da cui tanta dolcezza involo, ch’ardisco dir sovente

ch’uom posto in ciel si raro ben non sente,

giuro, felice Aminta,

ch’un bel tuo sguardo solo

si ini lega, mi scalda e m’innamora,

che d’amor tutti i lacci e foco e strai

non farian tanto in altro petto mai.