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xv - la magistratura 333


     e i templi a le divine
cure sagrati, che di te si degni,
de’ tuoi famosi ingegni,
100 ahimè! l’arte non pose a questo fine,
altro piú ben non godi
che tra gli affanni tuoi cantar sue lodi.
     Non giá per ch’ei non porse
le mani all’oro o a le lusinghe il petto;
105né sopra l’equo e il retto
con l’arbitro voler giammai non sorse;
né le fidate a lui
spada o lanci detorse in danno altrui.
          Vile dell’uomo è pregio
110non esser reo. Costui da i chiari apprese
atavi donde scese,
d’alte glorie a infiammar l’animo egregio,
e a gir dovunque, in forme
piú insigni, de’ miglior splendano Torme.
     115Chi si benigno e forte
di Temide impugnò l’util flagello?
O chi pudor si bello
diede all’augusta autoritá consorte?
O con si lene ciglio
120fe’ l’imperio di lei parer consiglio?
     Davanti a piú maturo
giudizio le civili andar fortune,
o starsene il connine
censo in maggior frugalitá securo
125quando giammai si vide
ovunque il giusto le sue norme incide?
     Ei, se il dover lo impose,
al veder lince, al provveder fu pardo;
ei del popolo al guardo
130gli arcani altrui, non sé medesmo ascose;
né occulto orecchio sciolse,
ma solenne tra i fasci il vero accolse.