Pagina:Parini, Giuseppe – Prose, Vol. I, 1913 – BEIC 1891614.djvu/62

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che dalle parole del primo non si debba necessariamente dedurre la conseguenza ch’io n’ho dedotta. Ben è vero che nel secondo dialogo (0 voi interpretate questo vezzo, pregio e garbo per ischerzi, piacevolezze, modi, proverbi e lepidezze nostrali, che sono piú atte a far ridere e perciò vi burlate, a dir vero troppo aspramente e con meno rispetto che non si conviene, di colui, chiunque si sia, ma nondimeno ragionevole ed onesta persona, che dalla vostra proposizione ne trasse cosí diritta conseguenza, quanto è quella che coloro che confortano i condannati, faccendolo essi in lingua milanese, moverebbero alle risa il paziente. Ma, se «vezzo» e «pregio» e «garbo», nel vostro vocabolario, altro non significa che «scherzi», «piacevolezze», «modi», «proverbi» e «lepidezze», che sono piú atte a far ridere, quale strana cifera è quella che voi usate scrivendo, e qual novella foggia di linguaggio è cotesto vostro? Non vedete voi che, se cosí fosse come voi interpretate, non sarebbe giá la lingua che farebbe ridere, ma le cose che in essa si dicessero? e che perciò si dovrebbe dire il medesimo anche della bellissima lingua toscana, e cosi di tutte le altre lingue del mondo, nelle quali tutte, secondo i diversi stili, usansi e scherzi e piacevolezze e modi e proverbi e lepidezze, che sono piú atte a far ridere? Forse che, s’io, commendandovi un’orazione di Cicerone o del Casa, vi dicessi che, oltre agli altri meriti d’essa, vi si trova ogni pregio e vezzo e garbo della lingua in cui è scritta, intendereste voi, secondo il vostro linguaggio, ch’essa avesse mosso a riso tutte quante le persone che l’ascoltavano? Ma vedete se, malgrado l’oscuritá del vostro scrivere, e nonostante ciò ch’io giá ho provato che voi avete generalmente detto in biasimo della lingua milanese, io entro pure a indovinare il vostro sentimento. Io credo che voi, in questo luogo, benché malamente vi siate spiegato, abbiate voluto ragionar dell’uso di questa lingua ed accennare che, oltre ch’essa è per (1) D. II, p. i&. (2) D. II, p. 19.