Pagina:Pascoli - Antico sempre nuovo.djvu/101

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la poesia lirica in roma 87

gente. È condotta al talamo col volto velato; quando lo scopre, è già invecchiata, e rapidamente volge, non alla morte, ma all’oscuramento da cui perennemente esce nell’anno1. Così il sole è aliusque et idem. Noi non abbiamo alcuna traccia d’inno rustico e popolare cantato alla luna fecondatrice, a quella che «compiendo a parte a parte colle sue fasi mensili l’annuo giro empie all’agricoltore la rustica capanna di buono e grande raccolto»2. Ma noi possiamo indurre qual canto adombrato nell’anima, se non espresso con la voce, fosse dei buoni popolani che alle idi di Marzo si sdraiavano sull’erba, nel bosco della dea lungo il Tevere, bevendo e augurando: «O vecchierella bianca, sempre in volta, che passi i mari e ti nascondi nei fiumi, che entri ed esci per le finestre, che quando ti levi il velo nuziale, mostri una faccia rugosa e ridente; o vecchierella buona che distribuisci le focacce alla gente, dànne anche a noi, sempre, per tutto l’anno, Anna Perenna». Faunus è il dio dei boschi e canta con la voce bene augurante del vento tra le fronde. Egli dice ciò che avverrà: poterlo sapere! ma chi intende quel canto di foglie? Il vates e la casmena. Ma non voglio moltiplicare gli esempi a dimostrare che il Romano, o, più generalmente, l’Italico aveva e il desiderio e la facoltà d’idealizzare, di animare, di poetare3. Però non sapeva troppo esprimere con parole i fantasmi del suo pensiero, intendere e significare «quel canto di foglie»; o non voleva.

  1. Ovid. F. III 523 seqq. specialmente 579, 643, 645, 657, 690.
  2. Catull. [XXXIV] 17 (p. 86).
  3. Vedi Mommsen, Storia Romana, vol. I, cap. 15.