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condo lui, era filtrata in Roma1. Memorabile è la sentenza: «Ognuno è artefice della sua fortuna». Altissima sarebbe, se fosse certa la lezione e l’interpretazione, l’altra: «Tu dimentichi la tua miseria quando vedi un amico. Ora sia tuo nemico quello che vedi: ebbene, pensatamente, e non volentieri come con l’amico, tieni lo stesso contegno tuttavia». Ma queste sentenze che a Cicerone davano sentore di pythagorico, sono però molto rozze di stile e di verso. Il numerus o versus Saturnius persistè per molto tempo ancora, non ostante le filtrazioni greche. Però esso si trovò presto, non cinquanta anni dopo la morte di Appio, accanto e a fronte, il verso ellenico, specialmente l’iambico e trocaico della comedia e tragedia. Donde permanò nel popolo, se si hanno a credere molto antichi e di questi tempi (erano certo antichi al tempo di Orazio) alcuni versi quadrati, in uso nei giochi dei fanciulli: «E la scabbia prenda quello che pervenga ultimo a me; Re sarà chi farà bene non sarà chi non farà». E di gioco fanciullesco è forse l’altro: «Come coglie a spiga a spiga la sua messe il mietitore». Un senario cantavano i monelli romani dopo il castigo degli aruspici etrusci che avevano dato il mal consiglio2. Ora è notevole che il metro nazionale si conserva più a lungo nei monumenti, per esempio, degli Scipioni, nei quali solo dopo il 615 si incide una iscrizione che non sia in saturni. Non mi pare che si possa credere all’antico carmen Priami, come non so che pensare del tetra-

  1. Cic. Tusc. disp. IV, ii 4.
  2. Pag. 7. Alia vetera carmina.