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tica e che crassator era chiamato sì il poeta e sì il parassita1. Ma il severo Censore faceva distinzione tra poesia e poesia, tra poeta e poeta o, a dir meglio, tra poeta e vates. Egli rimproverò Marco Fulvio Nobiliore di aver condotto poetas in provincia. La parola poetas è certo del resto di Catone2.

Egli verisimilmente designava con questo nome quelli che abbandonavano la via dei maggiori e nel metro e nel fine dell’arte. Il versus longus Enniano trovò forse grazia presso di lui, poichè cantava la gloria di Roma negli Annales; ma tutta l’altra Grecità drammatica e lirica non gli piaceva. Ho detto lirica; e forse dovevo fermarmi alla prima parola, se con una tragedia praetexta il poeta celebrò l’imprese del suo patrono in Aetolia, se Ambracia è tragedia e non satura3. Ma i conviti che Catone mette così vicini all’arte poetica, danno sospetto che egli abbia disapprovato un cambiamento delle sane usanze romane proprio in essi conviti. Non rimpiangeva egli i carmina de clarorum virorum laudibus che presso i maggiori, molte generazioni avanti la sua età, erano cantati dai singoli banchettanti al suono della tibia? E sappiamo anche, da Cicerone, quanto egli si dilettasse modicis conviviis. E sappiamo che per lui era licentia, sia pure data dalla gloria, quella di Duilio di farsi accompagnare, privato, a casa dai sonatori di tibia4. E che cosa è naturale che non dicesse, se a’ suoi tempi era stato introdotto alle mense romane l’uso di canzoni con-

  1. Pag. 13-14, nota al 4, 2.
  2. Pag. 13. Naevius nota al 1.
  3. Pag. 17. Ambracia.
  4. Cic. Tusc. I, 2, ib. IV, 2, Brut, xix 75, sen. 13, 44.