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la poesia lirica in roma 163

frugale è la nota comune dei primi poeti Augustei, Vergilio, Orazio, Tibullo. Vogliamo credere a una parola d’ordine data loro da Maecenate o da Augusto? E come anche a Tibullo? No: era un sentimento comune, un grande desiderio di pace che prendeva quelle sante anime piene del timore d’uno sfacelo, veduto imminente, poi allontanato bensì ma ancora in vista. Orazio più di tutti ebbe il presentimento del futuro, egli che vates giovane sentì già nella Roma fatta deserto il calpestìo di cavalli barbarici, e maturo poi pensò ai popoli forti casti poveri, come gli Scythi e i Geti, in confronto ai Quiriti degenerati. Orazio fu, in questo presentimento, il precursore di Tacito.

Le odi, che abbiamo detto, simposiache e amorose, sopo dunque parti di dialoghi (una è dialogo vero e proprio); sono piccoli mimi in cui per lo più ignoriamo il nome dell’interlocutore di cui sentiamo le parole. I carmi «non prima uditi» sono sì in persona di Orazio, ma di Orazio invasato dalla divinità, d’un sacerdote delle Muse, cui la infanzia miracolosa predestinava e consacrava. L’anima di Orazio è in quelle come riflessa, in questi quasi transfigurata. Meglio noi possiamo coglierla in altre poesie, nelle quali troviamo la conosciuta sorridente faccia dell’autore dei sermoni e delle epistole. Sono le odi ispirate dalla campagna, dalla religione, dall’amicizia. Sin dall’anno 723 Orazio aveva avuto da Maecenate in dono la villa Sabina, con un bel fondo coltivato, a quel che pare, da cinque famiglie di mezzaioli, più otto opere. Sappiamo quanto Orazio se ne compiacesse, con quanta sollecitudine cogliesse ogni occasione per andare a respirare l’aria