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la poesia lirica in roma 181

grammi della Cicuta. L’epigramma si vede un po’ da per tutto, dopo la fioritura Augustea. Accanto ai generi poetici che durarono un pezzo, con molta magnificenza di forma ma con poca più anima, l’epigramma, breve e vivo, che si nutriva di verità, entrando da per tutto, come tien poco posto, e da per tutto occhieggiando e origliando, ebbe molto favore. Marziale poteva dire (IX 1):

Gauro, tu provi che il mio è un ingegno minuscolo, in quanto
     carmi compongo di cui gustano la brevità.
Bene. Sta bene. Ma tu, che il re Priamo in dodici libri
     canti e la guerra di Troia, grande sei forse per ciò?
Noi non si fa che fanciulli, che statue piccine: ma vive!
     Grande, un gigante tu fai ch’altro che creta non è.

E così epigrammi scrissero un po’ tutti, tornando a Catullo, ma ripulendo e limando. Niente elisioni, nessuna varietà nelle basi, pentametri quasi sempre a un modo. E l’arguzia in fondo: ingegnosità più che verità, agghindatezza piuttosto che grazia. Si veda in Seneca: esso pettina e acconcia, per così dire, il suo dolore1. Ha detto in un epigramma che un relegato è come sepolto? In un altro, esso è morto, è sepolto, è cenere: chi l’offende, viola la religione del sepolcro. Più viva è la sua satura contro Claudio: Claudio morto, s’intende. Chè questo vezzo s’introduce, invece della sboccata libertà repubblicana di Catullo e di Bibaculo: di gettar le freccie iambiche a chi non le può sentir più. Petronio, no. Secondo il racconto di Tacito, non avrebbe aspettato che morisse Nerone, bensì di

  1. Pag. 317-321: specialmente il III [2] e il V [20].