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volta il confronto, anzi, è d’uno a uno: «nè agevolmente lo Terrebbe con ambedue le mani un uomo nemmeno ben giovane, Quali ora mortali sono; ed egli dall’alto lo gettò, alzatolo»1. Tempo da questa poesia non è più quando il poeta senta di dover fare un paragone più meraviglioso. Iasone, nelle Argonautica, «Afferrò dal piano un grande rotondo pietrone Terribile disco dell’Enyalio Ares: non uomini Robusti cinque da terra l’avrebbero sollevato un pochino»2; Turno, nell’Eneide, vede un gran sasso, come quelli di Omero, cui «a stento due volte sei uomini scelti porterebbero in collo, Quali corporature d’uomini produce ora la terra; Egli lo prese con man frettolosa e lo palleggiava contro il nemico»3. Ebbene: e Iasone e Turno son ben di quel quarto genere, dei felici eroi che ora abitano ai confini della terra, nelle isole dei Beati e a cui tre volte l’anno porta la terra il florido frutto4; ma i loro poeti e quella poesia sono già troppo da loro lontani. Sentono essi, e specialmente il secondo, il compianto di quel «troppo desiderabile tempo»5; ma si accorgono anche che è troppo diverso dal loro, e paiono diffidare continuamente che agli uditori o, ahimè, lettori, esso non abbia a sembrare ora vero, ora mirabile.


È dunque il tempo «troppo desiderato». Il canto è in fiore, e col canto anche la virtù eroica: αἰχμά

  1. M 381-3.
  2. Apoll. Rh. I 1364-6.
  3. Aen. xii 899-901.
  4. Hes. Op. et D. 156-73.
  5. Cat. lxiv 22 e segg. O nimis optato saeclorum tempore nati, Heroes, salvete deum genus, o bona matrum Progenies!