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la poesia epica in roma 199

tribù degli aedi». Molti essi erano, sì che spesso tra loro dovevano sorgere rivalità e invidie. In qual remoto tempo furono costruiti i due dedalei versi, che non sono vecchi nemmeno ora, «E vasaio vasaio odia e fabbro fabbro, E pitocco invidia pitocco e cantore cantore»? Forse nei tempi in cui l’aedo divino, onorato dalle genti, cantava al convivio dei re, poggiato alla colonna lunga, e il mendico errante dal brutto vestimento aspettava nel vestibolo, sulla soglia, il pane e la carne da empire la bisaccia. Ma il cantore era di quelli artefici che si vanno a chiamare, come indovino, o medico di malanni, o fabbro di legno, o anche divino cantore che diletti cantando; il mendico invece nessuno vorrebbe chiamarlo perchè lo consumasse. Sebbene, anche il pitocco può dire parola che sembra solo propria dei cantori: Io te posso celebrare per l’immensa terra1. Erravano, poeti e pitocchi, nello stesso modo. Pure l’aedo poteva anche affermare di non recarsi ai banchetti per bisogno, χατίζων2, sebbene non potesse non gioire in cuore, quando per la sua canzone (οἴμη) riceveva in dono una fetta tagliata dal tergo di cignale dai bianchi denti, con florido grasso intorno3. Erravano gli aedi, non da altri ammaestrati nelle loro canzoni, che dalla Musa, da una divinità che nel loro interno seminava canzoni d’ogni genere; e agli dei e agli uomini cantavano4. Ma il bene la Musa

  1. Hes. O. et D. 25 e seg. θ 472 e seg. σ 1 e segg. ρ 381 e segg.
  2. χ 351.
  3. θ 474 e segg.
  4. χ 344 e segg.