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lio, come si dice ora, ed erriamo per il bosco sacro. Quante myricae sulle prime ci tardano il passo! Sono basse le più, terra terra, povere pianticelle, che niuno pianta; che nulla dànno; che si chiamavano un tempo infelici e ora meschine: che si nominavano per dire ciò ch’era più opposto al melo dai tanti pomi e al balsamo dalle lagrime di ambra. Ma Virgilio le amava, e ne faceva l’imagine de’ suoi primi canti; sì che quando alzò un po’ il tono, riconobbe

che non si dicono a tutti le macchie delle umili stipe1.

Stipe erano le myricae, buone a fare scope per le aie e per le stalle: ma in Virgilio piangevano insieme coi lauri:

Pianto di lauri per lui, fu pianto ancora di stipe2.

Stipe od eriche di quelle più piccole, a cesti, dette crecchie e brentoli, e delle altre più grandi, dette scope; e anche alberi veri, come le tamerici o scope marine che nelle nostre campagne romagnole sorgono attorno al fimo graveolente e sono pronte a ogni uso dell’agricoltore che ne fa granate e crinelle e pungoli e verghe.

Sono dunque coi più umili degli arboscelli, che garbavano a Virgilio, i lauri, di cui si compiace il Dio della luce e di cui si coronavano i vincitori in guerra e nel circo, e che erano bensì sacri ai poeti, ma che il Poeta non cingeva, pago a un ramo d’e-

  1. Verg. Buc. IV 2. E le myricae sono poi in VI 10, VIII 54, X 13.
  2. id. ib. X 13.