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il cocomero 329

dopo». La qual cosa mi parrebbe ben convenirsi al cocomero, sebbene anche il popone e specialmente il citriolo abbiano l’uso di far di codesti «rimproveri». Plinio fa poi menzione d’una specie di tali «cucumeres» detti «melopepones», che fanno in Campania e hanno la figura di mele cotogne. E questi hanno proprio a essere i «meloni», i progenitori almeno dei nostri meloni o poponi, perchè Plinio ne loda, oltre il colore e la figura, anche l’odore; e dice che sebbene non pendano ma siano coricati in terra, appena maturano si staccano facilmente dal picciuolo: «statim a pediculo recedunt». E questa loro proprietà ha forse suggerito a Columella (X, «de cultu hortorum», 234) l’aggiunto a «cucumis»: dal tenero collo»:

          Et tenero cucumis fragilique cucurbita collo.

Tutt’insieme in Roma la poesia del cocomero... Non sorridete! La poesia è il fiore e l’utilità è il frutto; e senza fiore non si dà frutto. Per ripopolare le campagne italiche di liberi lavoratori, Virgilio scriveva le Georgiche; perchè? Prima il fiore, poi il frutto. Or bene, la poesia del cocomero in Roma non fu bene espressa, a quel che io credo. Si è detto il suo strisciare, il suo arrotondarsi e gonfiare, e il suo color ceruleo all’esterno; ma nient’altro: non il suo bel rosso interno, non quei suoi semi che, quando sono ancora tenerini, sembrano i denti appena spuntati dalle gengive d’un bimbo, non la sua zuccherina acquidità, non la giocondità che dà alle fiere e alle feste dell’estate, non la gioia che suscita nei fanciulli... che hanno il soldo per