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Non tutte le sue ultime poesie sono così lugubri. I «fioretti» da lui offerti a Maria Vergine, ora sono brevi epigrammi, ora elegie più lunghe, ora odi. Egli canta «con maggior plettro» in una elegia l’aiuto che dalla Madonna ebbero i cristiani nella battaglia di Lepanto, canta in un’ode saffica la santa famiglia.

Era questo un soggetto a lui caro, se volle proporlo con un premio ai pittori, nella Mostra Sacra di Torino. Traduco anche quest’ode, nella quale è molta grazia: molta grazia anche nei ricordi oraziani che vi si mostrano, come in una chiesa cristiana capitelli e fregi tolti ai templi degli dèi tramontati.

          Già la chiesa raggia di lampadari
          molti, l’ara già di ghirlande è cinta
          e d’incenso pio fumigando odora
                                        l’incensiere.

Viene in mente quel soavissimo principio oraziano (IV-11) nel quale si prepara la festicciola di mezzo Aprile, la festa di Venere marina:

          D’un Albano più che novenne ho pieno
          pieno un caratello, ne l’orto ho l’appio
          buono, o Phylli, per intrecciare i serti;
                                        edera ho molta

          che sol d’essa adorna i capelli, brilli;
          e d’argenti ride la casa; e l’ara,
          di verbene pie coronata, il sangue
                                        vuol d’un agnello;