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che amo io, anzi che amo assai, e non dire amoooo senza che s’intenda che un altro amò; così l’arsi permetteva d’allungare una sillaba breve. Il che mostra che la virtù dell’accento nostro e dell’arsi antica è uguale, e uguale quindi la natura. E la natura era di quella ed è di questo una percussione, un ictus, un colpo, e la virtù era ed è di tener sospesa a un’emissione di voce una vocale per più tempo che non si soglia, se non proprio per quanto si voglia.

Ma al Rasi pare inverosimile «che i Romani leggessero i loro versi in quel modo artificioso e meccanico, come immaginarono i moderni». Lasciamo, che i moderni non hanno immaginato nulla; perchè hanno applicato ai versi antichi le leggi ritmiche, che gli antichi applicavano; ma è certo che difficilmente noi ci persuadiamo che gli antichi in prosa pronunziassero, per esempio, plácidis, e in poesia placidís, e che una parola, come ad esempio appunto principio, si emettesse con due accenti, príncipiò, «contro il principio de’ grammatici che in una voce una est acuta»; e che si appoggiasse la voce sull’ultima sillaba della parola «contro quella regola dei grammatici, la quale stabilisce, che, tolti forse rarissimi casi e tassativamente indicati, nessuna parola in latino deve avere l’accento sull’ultima»1.

Ora se il Rasi difficilmente si persuade che s’infrangessero così le leggi dell’accentazione quando si pronunziava un verso, magari ad tibiam, come si potrebbe persuadere che, in prosa e parlando, e

  1. Rasi, Op. Cit.