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meglio al tempo di Cicerone che a quello di Ennio), rendeva possibile la pronunzia del verso secondo le percussioni ritmiche. Nei tempi più antichi i poeti, sì giambici e sì dattilici, cercavano, in difetto di quell’accento melodico, la coincidenza delle arsi e degli accenti espiratori-energici. Questa coincidenza Virgilio, per esempio, la fuggiva. Vediamo in fatti che quando la cerca ha una sua intenzione di fermare e sorprendere il lettore. Per qual effetto? Un suo verso ci ammaestri. Eccolo (Aen. IV 486):

          Spargens humida mella soporiferumque papaver.

È chiaro che il verso ha da esprimere il’ languore del sonno prodotto dall’incantesimo.

Vediamo ancora (œ. I 514):

          fertur equis auriga, neque audit currus habenas;

ancora (Aen. VIII 549, Georg. III 447):

          fertur aqua segnisque secundo defluit amni.
          mersatur missusque secundo defluit amni.

In questi versi è espresso l’abbandono, l’esser portato via, lo scivolare senza più sforzo. Ma guardiamo questi altri (Georg. I 357, Ecl. I 71, Aen. III 644, XII 404 et al.):

          Incipiunt agitata tumescere et aridus altis.
          Impius haec tam culta novalia miles habebit.
          Infandi Cyclopes et altis montibus errant,
          Sollicitat prensatque tenaci forcipe ferrum.

Qui non c’è sonno o languore, ma ribollir d’acqua, imperversar d’odio, l’orrore per i giganti, lo stringer delle tenaglie. Pare insomma che questi