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orecchio secondo che è vicino o lontano; il ritmo di prosa e il ritmo di verso dei così detti semiritmi è obbietto di due facoltà diverse: dell’udito e dell’imaginazione. Ora il ritmo presente, che si percepisce dall’udito, è più o meno piacevole, secondo l’arte dello scrittore. Si osservi, per esempio nel luogo del Tommaseo, la linea

          Ma devi, misero, morire, Marco,

in cui la spezzatura involontaria (il traduttore segue il suo testo a parola) e l’allitterazione non forse involontaria (ma misero morire Marco) dànno un suono incantevole, affatto indipendente dal ritmo di doppio quinario che la linea avrebbe, pronunziando:

          Ma devi misero || morire Marco.

E il ritmo lontano che si sente con l’imaginazione è più o meno indefinibile secondo che il metro dell’originale è noto o no; e più o meno bello, secondo che quel metro ci piace o no. Per esempio, io e tutti conosciamo il verso più comune dei canti ellenici presso a poco il nostro doppio settenario. Bene: a me questo verso non piace tanto; di che il ritmo lontano delle traduzioni dal greco del Tommaseo è per me alquanto turbato; e se provo a verseggiare la traduzione prosastica o semiritmica, ci resto male.

          Nè la terra mi pesa, nè la nera pietra
          ma ho cruccio e vergogna e un dolor grande,
          che m’hai spregiato, camminatomi sul capo.
          Forse non er’anch’io giovane? non ero prode?
          non camminai anch’io la notte alla luna?