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a giuseppe chiarini 399

magnifici. carmi degli antichi. Qualche cosa certo sarebbe.

Il Mommsen, da lei citato, asseriva in una sua lettera che a conquistare anche noi quel buono strumento, si oppone il difetto che ha la nostra lingua, di spondei. Al quale ostacolo possiamo aggiungere quest’altro, anche più grande: il difetto di ossitoni naturali. Dico naturali, perchè le parole tronche, quali amor e gentil a me pare assurdo metterle, come s’è usato e non s’usa ormai più, in fin di verso e perciò spesso o quasi sempre in fin di periodo.

Ero a Massa, e per aggiungere qualche lira al sottile stipendio, insegnavo storia, geografia e diritti e doveri nella scuola tecnica. Un giorno, che mi frullava per il capo qualcuna di quelle idee alate che si mirano con tanta passione e si colpiscono con tanta gioia e si raccattano con tanto rammarico, un giorno, per aver tempo d’uccellare così, tra me e me, ai passerotti, diedi da fare in iscuola un «componimento» storico. C’era tra quei cari ragazzi, un ragazzo molto curioso, un ragazzo che interrogato da me una volta che cosa fossero le «barbute» che, nel suo libro di testo, seguivano in numero di trecento Guarnieri tedesco, rispose, dopo averci pensato su: — Capre!... Bene: questo ragazzo mi presentò alfine il suo componimento scritto col suo stile delle feste. Io notai, non senza ridere, che consisteva nella trascrizione del racconto, quale era nel libro, abbellita però da un suo artifizio. Egli aveva troncato quante parole poteva nella fine dei periodi. Un periodo finiva in andavan, un altro in Ciceron, un altro in orator, e vai dicendo. Io risi.... e poi mi battei la fronte. To’ to’: dissi: o il divino Manzoni,