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che nel passaggio dal latino all’italiano le sillabe, avanti l’accento, tendono a sparire o a modificare la vocale. Quelle che si conservano, si può dire che tutte, o quasi, si conservano per la coesistenza della parola che ha l’accento su quella sillaba lì. Ed è, questo medesimo sforzo, tutt’altro che strano. Io propongo questa prova. Mettiamo che la musica, nella sua gran vita, fosse incamminata piuttosto al rispetto che al disprezzo della sua antica dolce compagna: la parola. E mettiamo che si contentasse di esprimere questa parola con uno spicco maggiore di ritmo, con maggiore rotondità di suono, ma non diverso da quello che ha naturalmente nelle bocche dei parlanti. Mettiamo insomma che la musica nostra trattasse oggi la nostra parola, come la musica dei Greci trattava (ai tempi d’Omero, veh!) la parola greca: crome le lunghe, biscrome le brevi. Ebbene, mettendo questo, il musicista come dovrebbe trattare le metatoniche? Come crome, come lunghe; se no, la parola sarebbe mal ferma e mal sonante. Tra la sillaba metatonica, che chiude in sè l’anima della parola, e la finale che ne contiene un sovente inutile particolare, di persona, di numero, di tempo, di modo, c’è un gran divario! Date a musicare la parola amore al più capriccioso dei musicisti d’oggi. Ne riuscirà, dalle sue note, un àmore o un amór; ma non amorè, credo.

Tuttavia non tutte le metatoniche hanno il medesimo peso. Già ho distinto le complicate dalle libere. Un’altra distinzione va fatta tra le libere che hanno le vocali o ed e e quelle che hanno a, i, u. Il suono di e ed o è incerto, a mezza via, per così dire. Nelle metatoniche è stretto e velato, anche