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Il latino nelle scuole 47

cacius, libidinem ingeniorum (Ann. V 4). Può essere che sui fatti di corte andassero attorno favole, scritte con una stessa cifra forse da molti, tutte intese a consigliare e a difendere la progenie del vendicatore di Varo, tutte sotto un nome solo, nome d’accatto, ma ingegnosamente trovato, φαιδρός, stato schiavo come Esopo, che aveva conosciuto Augusto e amava quelli che quel grande aveva amati. E forse altri, col nome del liberto d’Augusto e col suo fare, scrissero favole innocenti, punto politiche; e quelle si salvarono coi prologhi, mentre le politiche andarono perdute in parte, e in parte, mutata veste, rimasero. Così si darebbe una ragionevole spiegazione della frase di Marziale: improbi iocos Phaedri. Il Fedro che noi leggiamo, improbus? per due o tre licenziosità? No no: il cortigiano di Bilbili alludeva forse a ben altro: alle favole in cui si mordeva Seiano e forse Tiberio.

Ma io vi do un cattivo esempio congetturando così per aria. Ve ne domando scusa, ma nel tempo stesso v’invito ad accogliere per un momento la mia congettura e a cercare prima nell’Appendice Burmanniana, poi nei cinque libri di Fedro, le favole che possono combinare in qualche modo coi racconti di Tacito e Suetonio. Vi troverete la favola dell’aquila e del gheppio, che si sposano: favola che può alludere alle disegnate nozze di Seiano e Livilla. Vi troverete quella dello sparviero e dell’usignolo:

S’era ficcato lo sparvier nel nidio
     dell’usignolo, a lui facendo insidia.
     Trovò soli i piccini. Esso al pericolo
     vola e lo prega: Lascia stare i piccoli!