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la poesia lirica in roma | 67 |
modo ingegnoso una cosa brutta a farsi, anche in cene d’uomini, e nemmeno bella a dirsi1:
Tu nelle cene di dei non il ciocco de’ cinque rampolli
pota col lucido ferro, tagliandone il secco dal verde.
Ma l’epos sfiorì: il mondo eroico degli uomini più grandi, più forti, più belli, meraviglia di quelli οἷοι νῦν βροτοί εἰσι, non attrae più i Greci, che sono più affaccendati, appassionati, travagliati dalla vita reale. La poesia, più necessaria che mai, perchè ella è conforto, risuona più specialmente nei convivii, dove l’uomo o dimentica i suoi mali o si fa più forte contro essi o si lascia da essi commuovere sino alle lagrime e al canto. Da tre specie di convivii si possono supporre derivate, o meglio fissate, tre specie di poesia. E parola in Omero del banchetto funebre, detto τάφος, come la sepoltura, tanto era la stessa cosa2. A tali banchetti in tempi assai remoti si usava, pare, un cantico lamentevole, ἔλεγος, parola e cosa derivata da Cari e da Lydi, da popoli, insomma, dell’Asia minore. Il lamento era accompagnato dal flauto, αὐλός. È ricordato poi in Hesiodo, il banchetto allegro e sfrenato, o l’ultima parte di esso, il χῶμος: «da altra parte giovani facevano un comos, al suono dell’aulos, gli uni scherzando con danza e canto, gli altri motteggiando»3. Nell’inno a Hermeia sono «i giovi-