Pagina:Pascoli - Traduzioni e riduzioni, 1923.djvu/122

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la paura della morte

Sono già brinati questi miei cernecchi: il capo è bianco:
la gentile giovinezza non c’è più: scrollano i denti:
della dolce vita molto tempo più non mi rimane.
E però sovente gemo, ch’ho del Tartaro paura:
oh! la stanza dell’Oscuro, come orrenda! grave andare
colaggiù, poi ch’è destino: chi giù venne, su non vada.


si muore!

Chè non è nostro destino che possa sfuggire alla morte
     l’uomo, non se d’immortali egli nepote sarà.
Fuggi la mischia selvaggia bensì, e la romba dei dardi:
     vai, ti nascondi; ed in casa ecco la morte con te!
Oh! nè davvero tu hai dal tuo popolo amore e rimpianto;
     piccoli e grandi, in un reo, l’altro rammaricano.
Tutti nel popolo l’uomo magnanimo, il giorno che muore,
     piangono; ed un semidio, mentre viveva, egli fu:
esso davanti i lor occhi sta come una torre di guerra:
     molte sarebbero a più l’opere ch’unico fa.


fortezza nel dolore

Pericle, pianti piangendo e sospiri, non un cittadino
     può di banchetti aver gioia più, nè l’intera città:
tali ingoiò la tempesta del mare dal molto sussurro,
     onde le viscere a noi tanto dolore gonfiò.